Antonio Rezza e Giovanni Berardi
Una serata fantastica. Un divertimento assoluto, geniale. Una esperienza speciale. Assistere alla prova di Fratto 7, la nuova performance di teatro del mimo-attore-regista-scrittore Antonio Rezza, che sarà pressocchè perfetta per il suo debutto in teatro, a Torino, il prossimo novembre. Dopo Io, dopo Pitecus, dopo Bahamut, dopo 7-14-21-28 (per noi queste sono certamente le sue opere maggiori), sarà proprio con Fratto X che Rezza strabilierà le platee teatrali italiane nella prossima stagione. Perchè è proprio così, le cose che fa Antonio Rezza, e questo sempre in un crescendo maestoso, o si amano alla follia oppure si disprezzano. Alla Divina Provvidenza a Nettuno, dove da anni Rezza ha costruito il suo quartier generale per allestire e provare le sue cose che poi porterà in giro nei teatri italiani (o filmerà per le ipotesi di film che sempre gli vengono in mente) abbiamo incontrato questo filmaker d’avanguardia del cinema italiano, questo performer del palcoscenico e della televisione italiana. E questo percorso gli è proprio consentito in pieno, perchè, in definitiva, il cinema di Antonio Rezza è come il suo teatro, come la sua televisione.
Antonio Rezza ci riceve in questo suo spazio come sempre, con un sorriso affettuoso ed accogliente, anche con una umanissima ironia che sembra semplicemente sollevata in aria, tanto è leggera, come una maestra di umiltà. Dice Rezza: “Noi non siamo troppo considerati dal teatro commerciale, allora siamo costretti davvero ad inventarci i nostri percorsi”. La Divina Provvidenza è qualcosa che sa di storia del territorio pontino perchè è qui, quando il luogo fungeva da presidio medico all’inizio del secolo scorso, che tentarono di curare Maria Goretti, accoltellata ad undici anni da uno spasimante nel vicino Borgo Le Ferriere. Antonio Rezza sa davvero ascoltare il suo pubblico, anzi vuole proprio ascoltarlo, sa renderlo partecipe delle sue cose, lo ricerca e lo osserva proprio con insistenza. Ed è un piacere capire e sapere di fare parte, in questo contesto, del suo universo creativo. Soprattutto siamo catapultati dentro l’esperienza che Rezza fa con le prove dei suoi spettacoli, gli esperimenti estenuanti che effettua per convincersi che “questo sta per diventare lo spettacolo da proporre”. Quando recita i suoi monologhi, immerso e catturato nelle sue stoffe usate quasi come un patners, come simboli e luoghi, Rezza scruta negli occhi i suoi spettatori, proprio in profondità, un decimato pubblico coinvolto, una platea che sente incosciente; Rezza li smaschera, ne coglie gli aspetti più logici e li rielabora, spettatori che quasi entrano a viva forza, sapiente, nello spettacolo. Rezza non ha mai il copione scritto sulla carta, l’unica testimonianza resta una piccola telecamera appoggiata su un davanzale, nell’angolo, che è un proscenio dove le sue cose trovano anche la vita, anzi il vissuto dell’arte di Antonio: in bella vista il manifesto di Pitecus, il suo profilo dantesco, il suo becco d’aquila, perchè Pitecus rappresenta proprio, come ci ha detto Antonio, “l’uscita dall’anonimato delle piccole rassegne”. E seduta sotto questo altarino, emozionata ed affascinata alquanto, siede Alessandra, che è una sua collaboratrice, che, con dei fogli ed una penna, sottolinea ed evidenzia, quasi in una sorta di cronometro, gli attimi in cui il pubblico coinvolto, suo malgrado, magari sobbalza, reagisce, sorride, ride sguaiatamente, si sorprende, si domanda. È l’ Antonio Rezza mai conosciuto, il cittadino pontino in fondo, e non lo scrittore, il performer, il regista di cinema, quello che ora troviamo di fronte, alle prese con il phon ed i suoi capelli bagnati profondamente dal sudore alla fine dell’esuberante ed atletica prova.
Perchè Rezza quando sta sul palco, fatica molto, i suoi prosceni sembrano davvero, tutti, delle palestre attrezzate. L’ipotesi di film che ora Antonio Rezza ha in animo, e questo proprio da alcuni anni (“esattamente dal 2004” dice Rezza) è di realizzare e portare Cristo sulla pellicola. Su questo tema, c’è da dire, l’hanno preceduto maestri indiscussi del cinema italiano: Pier Paolo Pasolini ad esempio, con Il Vangelo secondo Matteo, 1964, Roberto Rossellini con Il Messia, 1975, Franco Zeffirelli con Gesù di Nazareth, 1974. Ora sarà Antonio Rezza, particolare filmaker e performer teatrale che cercherà di raccontare il significato “ateo” di Gesù tra tutte le difficoltà (e conoscendo il personaggio Rezza non farà nulla per liberarsene) che insistono sul cinema italiano. Quello che resta, per ora, di Ipotesi di film su Cristo sono i trentacinque minuti che Rezza ha presentato già qualche anno fa alla Milanesiana, la rassegna milanese di arte e cultura internazionale curata da Elisabetta Sgarbi, che si proclama da sempre una fan piuttosto accanita di Antonio Rezza. I motivi per interpretare Cristo Rezza gli ha individuati nella voglia di mettere in scena una figura che sentiva, proprio fisicamente, simile alla sua.
Dice Rezza: “In verità voglio fare cose sempre diverse, voglio anche portare la critica su un terreno dove il suo linguaggio può disperdersi, dove forse può trovare a stento gli orpelli per classificarci”. Ma Antonio Rezza resta un autore sempre particolare, per lui le difficoltà e le preoccupazioni certamente saranno altre, non proprio quelle legate al giudizio, all’ industria, alla commerciabilità del suo prodotto, quando sarà finito. Dice Rezza: “Giro senza essere assistito dai soldi dello stato. Noi, Flavia ed io, rifiutiamo proprio in generale l’istituzione che assiste”. Sembra di sentire Carmelo Bene, quando presentò alla stampa il suo film Un Amleto di meno nel 1973, e forse, Rezza e Bene, nella gestione del personaggio, dentro e fuori dal proscenio, si assomigliano anche. C’è da dire, fra l’altro, che Carmelo Bene, una delle contraddizioni più radicali dell’arte italiana, odiava il cinema, però voleva assolutamente farlo.
Dice Antonio Rezza: “Noi non giriamo perchè il film vada in sala, sappiamo benissimo che la produzione indipendente in Italia non va mai in sala. Quindi abbiamo tutta la libertà di fare il film, oppure di non farlo più, nella maniera e nei tempi che vogliamo e scegliamo”. Il plurale che usa Rezza è tutto riferito alla sua patners, artistica e storica, Flavia Mastrella, con il quale Antonio ha firmato tutta la sua filmografia, due lungometraggi importanti, EsCoriandoli, 1996 e Delitto sul Po, 2003, questi usciti anche nei normali circuiti commerciali, e poi una miriade di corti e mediometraggi, portati tutti e passati con grande successo ed interesse nei vari festival cinematografici, anche internazionali, che sono poi, come ci ha confessato Rezza, “i luoghi migliori per mostrare le nostre cose”. Ed infatti proprio ad una di queste manifestazioni, precisamente alla rassegna Anteprima di Bellaria che Rezza e Mastrella hanno colto dei riscontri importanti, aggiudicandosi due Gabbiani d’oro con i corti Il vecchio dentro, nel 1992 e con Confusus nel 1993. Ci tiene molto Antonio che venga riconosciuto appieno il lavoro estremo di Flavia Mastrella, perchè qualche volta, proprio in nome dell’esuberanza scenica, inconsapevolmente esercitata dai personaggi di Rezza in palcoscenico, spesso può capitare che Flavia venga, “sistematicamente anche” quasi dimenticata. Flavia Mastrella di Anzio, è una ricercatrice nel campo della scenografia, della scultura e della fotografia, e quando nel 1987 incontra Antonio Rezza, che nella vicina Nettuno cominciava ad imporsi anche al di fuori della realtà territoriale laziale, intuisce che nel curriculum di Rezza possono nascondersi gli estremi di un laboratorio, di un radicale ed estremo impegno per la ricerca di un linguaggio diverso da dare, anche e soprattutto, alla fisicità dei corpi in movimento. Nascono, quindi, da questi contesti, spettacoli intensi ed innovativi come Barba e cravatta, che è il primo della loro lunga collaborazione, scritto ed interpretato da Antonio Rezza con i quadri scenici curati appunto, con il dovuto senso metaforico ed astratto, da Flavia Mastrella. E sarà una scenografia che resterà storia, metodo e grammatica estrema per il cinema e per il teatro di Antonio Rezza: una scenografia che Rezza non calpesta ma indossa, una scenografia che, appunto quando indossata, può anche mutare in costume da scena, davvero, e proprio dalle mille sfaccettature e forme. Vedere Antonio Rezza in palcoscenico – per credere, questo Fratto X da novembre – potrebbe essere la nuova occasione per conoscere un linguaggio ricco di alchimie spettacolari. Questo Cristo che ormai da alcuni anni Rezza sta tentando di girare, proprio “a mozzichi e bocconi” come ci ha detto Antonio, è sicuramente coerente con il suo modo di afferrare, contrastare, cavalcare, interpretare e superare una industria. Quello che resta evidente è che Antonio Rezza resta comunque una genialità ancora non del tutto scoperta ed apprezzata dalla nostra cultura dello spettacolo.
Il suo primo film, EsCoriandoli è certamente il film più dentro l’industria che Rezza ha realizzato, anche se questa parola, anzi questa situazione, resta avulsa dal suo curriculum culturale e personale. C’era dietro EsCoriandoli una produzione milionaria, una distribuzione regolare, c’era la figura di un produttore di fama, Galliano Juso, famoso fino a quel momento soprattutto per la produzione dei film sul Monnezza, portato sullo schermo da Tomas Milian, o di qualche altra operina similare, Viva la Foca, 1980, ad esempio o Miracoloni, 1982. E c’erano gli attori, i professionisti dello spettacolo, nomi anche bravi ma famosissimi anche in riferimento allo star-system: Isabella Ferrari, Valeria Golino, Claudia Gerini, Valentina Cervi. Il produttore Galliano Juso non ha avuto nemmeno particolari motivi per produrlo.
Dice Rezza: “Semplicemente a Juso era piaciuto moltissimo il progetto teorico di EsCoriandoli”. Il film è andato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1996, ospitato nella sezione Finestra sulle immagini; è stato questo di Rezza proprio un debutto cinematografico più che riconosciuto e documentato. Il suo ultimo film, perchè c’è un ultimo film già pronto, si chiama Milano via Padova, ed è un film che tratta, con la consueta tecnica artistica di Rezza, temi che diventano anche piuttosto civili, sociali, urgenti (e forse questi per la prima volta sono così evidenti nella filmografia di Rezza) come possono essere quelli sul razzismo, sul lavoro assente, sulle prospettive azzerate, in una parola sulla speranza, anzi sulla dignità. Vedere questo suo film, Milano via Padova, ora, sarebbe l’imperativo, e vederlo dove capita (come diceva Rezza “il cinema indipendente non va più in sala”) oltre che dignitoso, sarebbe proprio una speranza, per il cinema e per l’arte pura, quella che non è vendibile, proprio quella che non può essere, o diventare, merce e consumo.
Giovanni Berardi
Scritto da Giovanni Berardi