Aperitivo

Da Lupussinefabula

C’era qualcosa di strano nell’aria; come se l’aria stessa fosse intrisa di un insolito messaggio da portare.  C’era una luminosità nuova in quel luogo, tra le diagonali dei passi, i vuoti e i pieni dei percorsi, gli alti e i bassi dei marciapiedi e dell’asfalto, il verde e il grigio delle aiole e del cemento. C’era qualcosa di nuovo, senza dubbio.

Un brivido le percosse la schiena, nel momento in cui scorse- per la prima volta- la millenaria radice che uno scavo improvviso aveva portato alla luce. Un fossile- si diceva già tra gli ambasciatori senza pena del lunedì mattina; ma forse sarebbe stato meglio non trovarlo, così non si sarebbero dovuti interrompere i lavori, e tutto sarebbe ritornato presto alla normalità, senza deviazioni obbligatorie alle sette e mezzo quando si è in ritardo, senza bisogno d interrogarsi più di quando non lo imponga la routine del quotidiano.

Invece era là.

Cosa ci facesse una radice millenaria sotto una marciapiede nel ben mezzo di NewYork, non se lo sapeva spiegare. Ma era là. E forse era là per lei, ma lei non lo sapeva; era là per fermare il suo tempo sempre troppo di fretta per essere accolto e assaporato; era là per porle un punto interrogativo sulla vita, e sulla morte, e sul passato, e sul futuro che non vedeva…

Si chiedeva come era possibile vivere in paesi come in Italia, dove ad ogni scavo è presente il rischio di trovare una colonna, una statua, un cimelio di un grande impero; dove la vita scorre accanto alle rovine, e forse prende un po’ la luce di quelle stesse.

E sorrideva pensando che lei non c’era mai stata, in Italia, ma quel fascino strano e contorto del Mediterraneo, della vita come non l’aveva mai vissuta e del caldo e delle persone, e di tutto quell’immaginario che doveva essere quel Paese anomalo, quel coacervo di sentimenti e sensazioni e impressioni ricavate da qualche rivista di turismo, tutto quello la attraeva e la respingeva insieme.

Tra queste riflessioni si accorse di essere arrivata alla vetrata d’ingresso del palazzo; il solito rincorrersi di tempi affollati e senza volto. Tra qualche minuto, avrebbe incontrato il dottor Lewis, che come al solito avrebbe commentato la sua gonna e il suo rossetto troppo scialbo. Una volta o l’altra gli avrebbe risposto…

‘Buongiorno signorina Morgan che bel verde speranza stamattina la sua gonna’- la faccia del capo tradiva il suo compiacimento nel farla sentire in disagio;

‘Buongiorno a lei dottor Lewis’. Una voce nella sua mente proseguì ciò che le labbra fortunatamente non profferirono ‘ Niente da dirmi stamattina sul rossetto?’.

‘E come al solito queste labbra andrebbero valorizzate un po’… si sa mai che… se lei si decide io una sera la porto a cena…’.

‘ Le venne da rispondere con una forza non sua, ma la forza era talmente tanta che l’istinto si scontrò contro l’imbarazzo, lottò per un momento e…  le uscì una smorfia che Lewis sembrò prendere come una vittoria personale: ce l’aveva fatta anche stavolta a farla sentire insignificante, a umiliarla, a farle sentire che non era alla pari di tutte quelle altre che si vendevano per un pezzo di carriera un più…

Come al solito non so continuare; così vi lascio solo con l’aperitivo di una storia che non si concluderà mai, perché non esiste; non esiste nella mia testa; o forse c’è, ma non riesco a tirarla fuori…



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