Iniziamo col dire che Loureiro non delude le aspettative!!
Il testo, adattandosi all'evoluzione della storia, non è più impostato come un diario scritto da un sopravvissuto, ma tratta le vicende narrate seguendo i punti di vista dei vari personaggi coinvolti nella storia (uno particolarmente "speciale").
Dpo un breve riassunto di Apocalisse Z il volume ritorna sui sopravvissuti che affrontano il loro viaggio verso la salvezza promessa delle isole Canarie; ovviamente non è tutto oro quello che luccica (altrimenti non avrebbe avuto senso un secondo libro!!) e presto si scopre come, anche in una zona "sicura", i problemi causati dalla stupidità umana siano in grado di rovinare la vita delle persone. Ovviamente non ci troviamo di fronte ad un trattato di sociologia, gli Zombie e le avventure non mancano, ma Loureiro cura il suo universo fin nei minimi particolari così non manca di descrivere con attenzione il nuovo mondo dei vivi. Interessantissima è la spiegazione a riguardo della diffusione del contagio che, senza dubbio, saprà accontentare chi, come il sottoscritto, si è sempre domandato come sarebbe realmente possibile una simile pandemia con un vettore lento come lo Zombie di stampo romeriano.
Il volume riesce, come il precedente Apocalisse Z, a mantener vivo l'interesse del lettore; come drogati vi ritroverete, a notte fonda, a dire "leggo l'ultimo capitolo e poi chiudo il libro"... purtroppo Loureiro non riesce a non far accanire il destino contro i suoi personaggi così, alla fine di ogni capitolo, il senso di angoscia per la sorte dei sopravvissuti della Galizia potrà indurvi a leggere ancora qualche pagina!!
La storia finisce con I giorni oscuri? A giudicare dal finale si direbbe proprio di no, confermando quanto circola in rete a riguardo della prossima pubblicazione di un terzo volume della serie Apocalisse Z. Speriamo di non dover attendere troppo prima di vedere il nuovo tomo... o almeno di attendere "il giusto", così da aver nuovamente tra le mani un capolavoro della letteratura Zombie!!
negli studi di Vicente Vegas per l'adattamento a fumetti di Apocalisse Z
Come promesso vi salutiamo offrendovi questo piccolo omaggio che la Casa Editrice Nord (nei ringraziamenti all'editore non possiamo che salutare anche le gentilissime Barbara e Laura) ha deciso di fare ai lettori di Zombie Knowledge Base, un estratto da Apocalisse Z - i giorni oscuri:
Il Sokol atterrò sul parcheggio di un polveroso autogrill sollevando una gigantesca nube di sabbia.[Fonte: Casa Editrice Nord]
Prit e io saltammo a terra con un fucile HK tra le mani e il retrogusto della paura in bocca, mentre scrutavamo tra i mulinelli di polvere cercando d’individuare la sagoma barcollante di un non-morto.
Solo quando la sabbia si posò e vidi che il piazzale era ancora deserto, il ritmo del mio cuore iniziò a rallentare. Una volta che le turbine del Sokol furono spente, un silenzio sepolcrale scese sopra il parcheggio. Per un istante ebbi l’inquietante sensazione che fossimo gli ultimi esseri umani rimasti sulla faccia della Terra.
All’improvviso Lucullo miagolò inquieto, rompendo quello strano incantesimo. Dovevamo sbrigarci. Pritchenko e Lucía sganciarono l’anello superiore della rete da trasporto, che scivolò giù, scoprendo una pila di barili gialli, ricolmi di cherosene CB-1-A. Spostando tre o quattro contenitori vuoti, l’ucraino fece rotolare uno dei bidoni pieni in direzione dell’elicottero. Una volta lì, con un movimento lesto, lo scoperchiò e v’introdusse un tubo di gomma collegato al serbatoio di combustibile del Sokol. A partire da quell’istante, riempire il serbatoio era questione di pochi minuti, ma in quel breve lasso di tempo eravamo davvero vulnerabili. Con l’elicottero a terra, la rete da trasporto e il bidone di un prodotto altamente infiammabile aperti, un decollo rapido risultava escluso. Se i non-morti fossero apparsi di colpo da quelle parti, saremmo stati davvero fottuti.
Dopo essermi assicurato che niente si muoveva nei paraggi, feci un cenno a Prit e aprii uno dei compartimenti della cabina posteriore del Sokol per prendermi una sigaretta. Feci una smorfia, contrariato: mi erano rimaste soltanto un paio di Camel stropicciate che sapevano di umidità.
Lanciai un’occhiata dubbiosa verso il ristorante, situato dall’altra parte del piazzale. Era un autogrill da quattro soldi, ma mi giocavo un milione di euro che aveva un distributore automatico di sigarette vicino alla porta o sotto la televisione. Dovrei darci un’occhiata, pensai. In fondo sembrava abbandonato.
Mi avviai verso il ristorante. Ci voleva solo un minuto. La porta, naturalmente, era chiusa. Mi guardai intorno. Davanti all’ingresso, alcune aiuole piene di piante ormai avvizzite decoravano la facciata, coperta da un alone polveroso. Per terra giacevano un manifesto di gelati scolorito, un ombrellone ridotto a brandelli, un paio di sedie di plastica e un tavolino pieno di polvere.
La porta sembrava resistente, ma su un lato notai una vecchia finestra con gli infissi di legno, che dava sulla cucina. L’usura del tempo e il calore generato dalla griglia della carne, piazzata proprio lì vicino, l’avevano via via incurvata nel corso degli anni, e così ora non si chiudeva più molto bene.
Sguainai il coltello che portavo alla cintola. Dovetti soltanto far leva un po’, prima che un sommesso crac m’indicasse che il chiavistello si era spezzato. L’anta della finestra, vecchia ma perfettamente oliata, girò silenziosamente sui cardini, lasciandomi via libera verso un interno fresco e buio. Avanzai con cautela, aspettando che gli occhi si abituassero al buio. L’odore di putrefazione era soffocante. Non appena mi abituai alla penombra, mi accorsi che l’odore proveniva da un enorme frigorifero spalancato, dove chili e chili di maiale e di vitello si stavano putrefacendo lentamente. Sopra il tavolo da lavoro, migliaia di vermi bianchi brulicavano su quelle che un tempo dovevano essere state delle costine di suino, strisciando perfino sul manico del coltello posato accanto. Sopra i fornelli c’era una padella bruciacchiata, con un enorme cerchio nero di fumo impresso sul coperchio. La manopola di quel fornello era aperta, ma il gas si era esaurito molto tempo prima, sicuramente dopo aver mantenuto a lungo accesa la fiamma.
Avevo l’impressione che il ristorante fosse stato abbandonato in fretta e furia. La gente doveva essere stata in preda al panico, tanto che non si era soffermata nemmeno sulle cose basilari. Potevo immaginarmi bene che cosa l’avesse spaventata a quel punto.
Aprii la porta della cucina. La sala da pranzo era composta da una decina di tavoli, molti dei quali presentavano ancora resti di cibo putrefatto. Il mio sguardo vagò per la sala finché non si posò su
un distributore automatico di sigarette, situato in un angolo dell’atrio, accanto al bancone della caffetteria. Dietro il banco scorsi un calendario, fermo per sempre al febbraio dell’anno precedente, tra bottiglie di cognac, foto e sciarpe del Real Madrid. M’infilai dietro il bancone e iniziai a frugare nei cassetti; nel terzo, accanto a un mucchio di fatture, trovai finalmente un mazzo di chiavi. Sorrisi soddisfatto. Una doveva per forza essere quella del distributore automatico.
Mentre aprivo la macchinetta, dall’esterno mi arrivava attutito il suono dei bidoni di metallo vuoti che urtavano tra loro. Significava che Prit e Lucía stavano richiudendo la rete, pronti a decollare. Non avevo molto tempo. Gettai frettolosamente in uno zaino tutti i pacchetti di sigarette che potei, compresi quelli d’infima qualità, rovesciandone diversi a terra per la fretta. Non sapevo quando avrei trovato un’altra tabaccheria. Stavo per uscire, ma all’improvviso sentii il richiamo della natura. Dopo oltre sette ore consecutive di volo, la mia vescica era sul punto di scoppiare.
Mi misi il fucile a tracolla e, slacciandomi i pantaloni mentre camminavo, per guadagnare tempo, mi diressi verso il bagno. Mi piazzai davanti a uno degli orinatoi e provai subito un’immensa sensazione di sollievo.
Mi stavo riallacciando i calzoni, quando vidi una mano riflessa sul pulsante della latrina. Era proprio alle mie spalle. E, dietro la mano, ecco il braccio, poi il resto di quella donna. Era grassa, coi capelli (o almeno ciò che ne restava) crespi e arricciati. Qualcosa le aveva divorato metà faccia e strappato completamente le braccia: ora uno giaceva sul pavimento del bagno, in mezzo a una pozza di sangue secco, mentre l’altro – quello che avevo visto nell’atto di aprire la porta – le pendeva dalla spalla, trattenuto soltanto da un paio di tendini, e dondolava in modo macabro ogni volta che la sua proprietaria si muoveva.
Prima che avessi il tempo di girarmi, quella bestia mi si gettò addosso schiacciandomi contro la parete. Avvertii il suo alito sulla nuca, mentre sentivo i denti che urtavano contro la canna del fucile. Era enorme, doveva pesare cento e passa chili, e si muoveva con la goffaggine tipica dei non-morti. Appoggiai le mani contro la parete e cercai di scrollarmela di dosso, che restava ostinatamente aggrappata coi denti alla canna del fucile.
Rotolammo per terra. Mi liberai come potei e iniziai a gattonare verso la porta, osservando con spavento quel mostro che cercava di addentarmi uno stivale. Iniziai a colpire con l’altro piede l’informe massa rossastra che era stata il suo viso.
Non volevo morire. Non così. Non nei bagni di uno sporco autogrill abbandonato, coi pantaloni slacciati e strisciando sul pavimento. Non in quel modo, no.
Afferrai uno dei dardi che portavo sempre nel fodero legato alla gamba (l’arpione era rimasto sull’elicottero), e lo conficcai con forza al centro del suo cranio. Con un lieve suono vischioso, la punta di acciaio scivolò nella testa di quella creatura, fino a toccare una qualche parte dura, al suo interno, dove restò incagliata. Mi aggrappai alla parete per rimettermi in piedi, senza perdere di vista per un solo istante il corpo della non-morta. Uscii dal bagno barcollando, col retrogusto amaro del la bile in bocca, l’adrenalina in circolo in tutto il corpo.
Non riuscivo ad abituarmi, né mai ci sarei riuscito. Ogni volta che uccidevo uno di quegli esseri, pur sapendo che non erano vivi, stavo male. Ogni volta che la mia vita era in pericolo, l’angoscia e il terrore mi paralizzavano. Tutte le notti, ormai da mesi, orribili incubi erano i miei abituali compagni di letto. Mi sentivo stanco, stanchissimo, ed emotivamente sfinito. Quel piccolo episodio era un compendio della mia esistenza in quel momento.
Un incubo senza fine.
© 2010 Manel Loureiro Doval
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