Di Michele Giacci. Nel 1902 lo scrittore inglese di origini polacche Joseph Conrad pubblica per la prima volta (integralmente) un breve romanzo dal titolo Cuore di tenebra (Heart of darkness). Alla fine degli anni ’60 John Milius scrive una sceneggiatura su un gruppo di soldati americani che a bordo di una barca raggiungono la giungla cambogiana durante la guerra del Vietnam e la affida al regista Francis Ford Coppola il quale insieme a Michael Herr, corrispondente in Vietnam durante il conflitto e autore di Dispacci definito da molti il più grande libro sulla guerra in Vietnam, decide di riscriverla unendola al romanzo di Conrad. Le riprese dureranno dal marzo 1976 all’agosto 1977 e dopo due anni di montaggio vedrà finalmente la luce Apocalypse Now.
Confrontando a distanza di 35 anni la struttura del romanzo di Conrad con quella della sceneggiatura di Milius e Coppola, ci si accorge che le tappe del viaggio del protagonista verso il suo obbiettivo si equivalgono. Da Londra a Saigon, dal Tamigi al fiume Nung, dall’Africa alla Cambogia, cambiano i luoghi ma il percorso narrativo rimane invariato. L’enorme talento registico di Coppola, che in quel decennio stava riscuotendo il meritato successo per i primi due capitoli de Il Padrino, riesce a costruire delle fondamenta talmente solide da potersi permettere alcune modifiche senza che le atmosfere e l’opera generale ne risentano.
Il romanzo di Conrad è al tempo stesso contenitore e contenuto, Coppola ha potuto tranquillamente attingere da esso immettendo però tutte le sue idee e la sua poetica. Come se Cuore di tenebra si fosse ringiovanito, il regista adotta uno stile di sintesi fuori dal comune; accetta apparenti compromessi trasformandoli in visionarie scelte estetiche, navigando tra due culture cinematografiche, quella americana e quella europea con chiari riferimenti alla mitologia greco-romana. Apocalypse Now si fa carico di suggestioni edipiche (l’uccisione del padre), rimandi alla leggenda del Graal, diventando una versione moderna dei viaggi di Ulisse.
Il concetto d’autore è ciò che più rimanda il film di Coppola al cinema europeo. Ma Apocalypse now è un’opera talmente a sé stante che risulta impossibile inquadrarla secondo una qualsiasi concezione di cinema o, proprio grazie alla rilettura narrativa del regista e di Michael Herr, modello estetico precostituito. Questo capolavoro bellico è diventato fin da subito un modello da seguire e sul quale ricominciare a raccontare la battaglia fisica e psicologica dell’uomo.
L’arrivo dei marines nel regno di Kurtz offre una decisa virata su un registro vaneggiante, scellerato, epico. In questa sezione finale il ricordo più significativo è la lettura che Kurtz fa a Willard di un articolo del Time che annuncia la vittoria americana. In questo caso l’autore ha voluto riportare e condannare l’inganno subito da lui a dall’opinione pubblica riguardo il Vietnam. Protagonista della scena è un Marlon Brando nascosto nell’ombra, un fantasma, un demone che ha aspettato per quasi tutto il film di fare la sua comparsa e poi alla fine fa di tutto per nascondersi. Il cranio lucido e illuminato da una fiamma pare quasi un tramonto infuocato, la sua voce inghiottita nel cuore delle tenebre è quella del diavolo in persona. Idolo umano che pennella di una maggiore e incotrollata follia il Kurtz di Conrad.
”Granduca Sei a squadriglia Aquila: vai con la guerra psicologica! A pieno volume. Qui Romeo Foxtrot: vogliamo ballare?”
Uscito all’epoca con due finali e qualche anno fa nella versione Redux con quasi cinquanta minuti aggiuntivi, è impossibile scindere Apocalypse Now dal progetto e dalla visione del suo creatore, che con quest’opera ha posto le basi di una rifondazione del cinema americano. Impetuose e ormai entrate nell’immaginario collettivo di tutti i tipi di spettatore le scene dell’assalto aereo fomentato dalle musiche di Wagner mentre i soldati fanno surf. E’ uno straordinario spettacolo che fa da contrasto al viaggio sul fiume che funge da ricerca di identità e rappresentazione di un tragitto spirituale all’interno della propria coscienza.
Un viaggio sul lungo fiume che si snoda come un serpente – Ride the snake, to the lake, the ancient lake, baby//The snake is long seven miles//Ride the snake//He is old and his skin is cold – rieccheggia sull’acqua e negli sguardi allucinati dei soldati la voce immortale di Jim Morrison. Viaggio nella follia e nelle sue mille dimensioni: sesso, droga, violenza, terrore. La follia è libertà, essere liberi dalle proprie opinioni mettendosi al servizio del potere, una visione ipocrita alla quale il folle Kurtz viene meno, e che presto inizia ad odiare seduto sul trono del suo sciagurato regno di macellai. Egli ha in sè la calma e la saggezza dei folli filosofi, si è già confrontato con se stesso e ora chiede un sacrificio a Willard (Martin Sheen), quello di fare altrettanto svestendo per un attimo le vesti di galoppino mandato dal governo a riscuotere i sospesi, consegnandogli quei ritagli di giornali che in realtà non raccontano le vere mostruosità di quella guerra. Kurtz ha conosciuto il lato oscuro dell’animo umano e ora ne è ossessionato, vuole essere ucciso, ma ricordato.
”Ho osservato una lumaca strisciare lungo il filo di un rasoio, questo è il mio sogno, è il mio incubo: strisciare, scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere.”
Nel romanzo di Conrad il personaggio di Willard consegna alla compagna di Kurtz, parole diverse, ricordandolo come un eroe. E mentre sotto il fiume le note elettriche di quel brano dispensano follia cantando la morte dell’animo umano, un morto che favoleggia la fine sussurra ciò che è stato il Vietnam, che la guerra può essere giustificata ma tutto quello che ne deriva non è altro che “L’orrore… l’orrore… l’orrore… l’orrore”.
“This is the end…”