Guardando questo film, mi viene in mente El Mirador. Un sito archeologico guatemalteco, caratterizzato dalla presenza di rovine, oramai quasi completamente ricoperte dalla vegetazione, risalenti all’impero Maya.
Lo trovo affascinante, nel senso sepolcrale. C’è sempre del fascino nel vedere la natura riconquistare costruzioni così imponenti come le piramidi. E lo trovo un monito da non sottovalutare, se è vero che, oltre alle malattie e alla guerre intestine e al successivo arrivo degli spagnoli, il motivo soverchiante che cagionò la caduta della civiltà Maya fu una catastrofe ecologica inarrestabile, dovuta allo sfruttamento insensato del terreno e, soprattutto alla deforestazione incontrollata. Quest’ultima era necessaria per ottenere quegli stucchi con i quali i Maya erano soliti ricoprire i loro immensi templi. Per rivestirne soltanto uno di essi, a El Mirador, è stato calcolato il conseguente abbattimento di 650 ettari di foresta.
Foresta che, più di mille anni dopo, s’è ripresa il proprio spazio.
Apocalypto, di Mel Gibson, non è un film storico. La volontà del regista era rinvigorire il genere action, confinato per troppo tempo in un presente o futuro distopico e dominato dall’utilizzo di effetti speciali, preferendo un’ambientazione suggestiva e il più possibile sconosciuta, che noi altri, in quanto specie, siamo riusciti a ricostruire attraverso i frammenti rupestri, le cronache alterate e i sopravvissuti, quei discendenti riusciti a giungere fino a qui.
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Azione
Un universo sconosciuto e sconfinato, impreziosito dalla scelta di utilizzare solo la lingua yucateca, sottotitolata, per tutta la durata del film.
Poca storia, ma ricostruzione accuratissima dei set e dei costumi, anche se talvolta piegata alle esigenze estetiche. Per riprodurre la città principale dei Maya e le sue piramidi, modelli in legno e non già in CGI, si è pescato dagli stili architettonici di diversi periodi della storia di questo popolo e non solo da quello coevo ivi rappresentato, ovvero gli inizi del XVI secolo.
Messinscena sovrabbondante di dettagli crudi, coloratissima e sfarzosa, con centinaia di comparse scelte una ad una che, con la loro singolare e bellissima fisicità, riescono a incarnare una dimensione parallela, un tempo alieno, con tutto il fascino torbido che da esso promana.
Azione, quindi. Infatti, il focus è la fuga per la salvezza della propria vita e, incudentale, anche la vita della propria compagna e dei propri figli.
L’affresco si apre su una scena di caccia. Quotidiana e in puro spirito di sopravvivenza, per poi venire subito offuscata dalla paura negli occhi di decine di profughi scampati ad una guerra atroce, la cui crudeltà e gratuità è ben visibile sui loro occhi, che altro non ha lasciato loro che la ricerca disperata di “un nuovo inizio”.
La paura, che si insidia nel cuore degli uomini per farli marcire dal di dentro, si insinua anche nello spettatore, oltre che nel protagonista. Tutta la violenza derivante dalla fine prossima di una civiltà sta, infatti, per affacciarsi in modo brutale.
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Sui generis
Se non ricordo male, a suo tempo, nel 2006, ad Apocalypto seguì il solito strascico di polemiche sterili derivanti dalla scelta di Gibson di rappresentare, e quindi di sposare, quella branca della storia pre-colombiana, che pure sembra seguire l’ipotesi più razionale circa la ricostruzione del periodo storico relativo, che vuole la società dei Maya preda di violenza endemica, spesso inscenata attraverso giochi e manifestazioni religiose, in sostanza attraverso la spettacolarizzazione della morte, usata per irretire le classi sociali più basse da parte di una minoranza dominante. Direi sempre la solita storia, di certo tipica non solo dei Maya, ma comune a un po’ tutte le società “civili” nel loro progredire.
Polemiche inutili, quindi, rispetto alla bellissima e frenetica rappresentazione a cui si assiste.
Guerre, combattimenti, riduzione in schiavitù, sacrifici umani, piccole piramidi composte da teschi umani e teste impalate, danze coreografiche di massa in cerimonie pubbliche di adorazione al dio Sole, durante le quali orridi tizi mascherati estraggono il cuore pulsante delle vittime dipinte di blu per placare la sete del dio, che si ripercuote sulla terra e sull’infertitlità del suolo. Splendidi, davvero splendidi i primi piani delle comparse e degli attori, quasi tutti provenienti dalla strada.
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Caduta di un’epoca
Apocalypto non è, tuttavia, privo di difetti, nonostante la sua accuratezza che arriva al punto maniacale di inscenare l’esatto modo di attaccare del giaguaro, che preferisce azzannare le sue vittime alla testa, piuttosto che alla gola come tutti gli altri grandi felini.
La critica che a esso si può muovere è nella sovrabbondanza di temi e avvenimenti, piuttosto rari, che appaiono e si concretizzano in un arco di tempo brevissimo, circa un giorno e mezzo.
Un eccesso di deus ex-machina, quindi, che trova somma celebrazione nel compiersi dell’eclissi e nella concomitante salvezza del protagonista. Quando si dice il caso. Stesso protagonista, invero efficace, Zampa Di Giaguaro (Rudy Youngblood), che assisterà allo spettacolare approdo degli spagnoli.
In sostanza, Mel Gibson ha voluto riassumere e rendere organiche in poco più di due ore, tutte le cause note e ipotizzate della caduta della civiltà Maya, dando a ciascuna di esse, il suo momento di gloria:
1) la deforestazione
2) la carestia
3) la violenza endemica
4) lo sfruttamento delle classi inferiori, spesso ridotte in schivitù, da parte dei detentori del potere
5) la superstizione e i condizionamenti religiosi
6) le malattie (peste e vaiolo)
7) gli europei
Resta, in ogni caso, il fascino mistico e arcano allo stesso tempo, per quanto paradossale, della messinscena dell’apocalisse. Tema, quest’ultimo, ricorrente e apprezzato su questo blog.
C’è un fascino sottile, magico e perverso, se volete, nel guardare la decadenza sottile e ineluttabile di una civiltà morente. Nell’osservare le certezze di questa, siano esse scientifiche o religiose, quasi sempre vanto e orgoglio cieco di chi ne fa sfoggio, sgretolarsi di fronte alla catastrofe incombente. Stessa catastrofe che inizia a essere percepita, da parte di coloro che la vivono, non come passeggera, ma avente dimensioni colossali e perciò stesso incomprensibili, dimensioni tali alle quali per istinto si associa l’aggettivo divino, perché fuori controllo dalla portata umana e dalla sua intelligenza.
E allora, benché accessoria e inserita a forza nello svolgersi del film, scena culmine, e per poetica e per distruzione, resta da inquadrarsi quella della bambina appestata che, in mezzo ai cadaveri dei propri familiari, vittima probabilmente della febbre e del delirio, diviene veggente e profetizza ai guerrieri che vede passare non già la fine di questi ultimi, ma la caduta di un’intera epoca. Bellissimo.
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