Spazio, ultima frontiera. Che solo a scriverle, ‘ste parole, ti dovrebbero far sentire il vuoto assoluto, il freddo, l’angoscia, il limite estremo, per ora, della specie umana. Certo, ci sono cose spettacolari, come Planetes, un manga che onora la fantascienza e la narrativa in generale, e cose come questo Apollo 18 di Gonzalo López-Gallego, già incontrato su queste pagine quando affrontai il suo gioiellino El rey de la montaña, Apollo 18 che si rivela per ciò che è: una sorta di materia organica anfibia.
Nemmeno occasione sprecata, perché è vero che l’argomento cover-up, che da sempre aleggia intorno alle missioni NASA sulla Luna, missioni che in più occasioni avrebbero testimoniato contatti con civiltà extraterrestri, è affascinante, ma senz’altro più complesso risulta inscenare sullo stesso un intreccio che risulti avvincente. Non si pretende, da questo punto di vista, la novità, ma neppure la moglie dell’astronauta.
Il problema sta nell’immaginazione.
La Luna e le missioni Apollo. Il nostro è un satellite morto, sprovvisto com’è di atmosfera, cosa che impedisce, per quanto ne sappiamo, la vita stessa (o quasi la totalità di essa). Ragion per cui, le strade percorribili sono poche, dal momento che si è scelto di caricare il tutto sulle spalle, munite di cineprese (giusto, Lucia?), di tre astronauti, e di fare il mockumentary dallo spazio profondo, con reminiscenze di Blair Witch Project, nell’inquadratura sagomata e stretta di un proiettore da cui si presume queste riprese vengano riprodotte.
Due sole strade: il delirio da isolamento, da spazio profondo, cui peraltro gli astronauti sono resistenti, perché allenati, oppure i fantasmi da Marte carpenteriani, inconsistenti, ma, non si sa come, senzienti. E invece, no, c’è una terza via…
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[Ok, spoilers]
Ho rivisto Blair Witch Project da poco, sapevo già che avrebbe perso tutta la magia della prima volta al cinema dove, per la cronaca, non mi terrorizzò, ma mi lasciò bello spaventato. E devo dire due cose: 1) Hai ragione, Alice, è brutto e 2) nun se possono più vedere ‘sti falsi documentari. Sanno di poco, sono ormai difficili da girare e, se non sai il fatto tuo, vien fuori una sbobba che è impossibile mandare giù.
Prima di tutto, lo spazio; ma questi tre astronauti dove stanno? D’accordo, la Luna; ma, non so, non si sente niente, la tensione latita, il grandangolo anche, la dimensione è stretta come l’oblò della cinepresa: si galleggia a gravità zero, si ascoltano le voci monocordi da Houston e ci si prepara allo sbarco. Missione Apollo 18, sperando che i russi non arrivino mai lassù.
E sulla Luna, dopo passeggiate e tanto di impronte rigate evocative della discesa di Armstrong, un piccolo passo per l’uomo etc., spunta la narrazione che più classica non si può, infatti viene dritta dritta non già dal ventunesimo, ma dal diciottesimo secolo: la fonte è, udite udite, Robinson Crusoe di Daniel Defoe. E lo è nel rinvenimento delle impronte dell’altro, non sulla spiaggia ma sul suolo lunare. Non è Venerdì che sta arrivando, ma un fottuto cosmonauta russo.
Scena che dovrebbe costituire rottura, presenza umana evocata dai ricordi ora improvvisamente concretizzata. Solo che qui i nostri naufraghi proprio non se l’aspettano, e neanche gli spettatori, o meglio, questi ultimi se ne fregano, infatti tale rivelazione è a impatto zero. Ci sono arrivato e ho chiuso gli occhi. Ah, già, grande colpo di scena nel sapere che i russi sono già lì e hanno le suole lisce anziché rigate, intelligentoni.
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Ma non è tutto qui, infatti, tra le rocce lunari si nascondono altre sorprese, le pietre parlanti di Fantaghirò che, com’è ovvio, non gradiscono che nel loro habitat si aggirino questi umani rompicoglioni in tute pressurizzate, e tentano di entrarci, fisicamente, dentro gli umani. E a questo punto, o ti fai venire, tu regista, qualche guizzo sadomaso truculento splatter, qualcosa che giustifichi il fatto che questi isolati nel cosmo stanno giocandosi la vita contro pietre zampettanti, oppure il colpo di sonno è assicurato.
Ah, intriganti le pietre, ma quando si metteranno a parlare? Mai. Non succede. A dire il vero non succede nulla, come per la restante parte del film, che tocca l’apice della cazzata piagnucolosa quando l’astronauta frigna per essere recuperato da Houston che nel frattempo si sta godendo il suo Grande Fratello esclusivo con le tre cavie umane in balia dei sassi carnivori: frigna e dice che lui c’ha famiglia, per cui lo devono tirar su per forza. Ma a Houston sono dei duri e non si commuovono. Fanculo all’astronauta e tanti saluti.
No, cioè, a parte la scena intrigante della discesa nel cratere, freddo e illuminato col flash della macchina fotografica, il resto è BWP tra gli oceani di roccia, senza le voci, ma con tanti allegri sassolini curiosi, innamorati dei vostri orifizi.
Amore cosmico.
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