Guardo la trasmissione Piazza Pulita di Corrado Formigli su La7, e il servizio sulle operaie di Barletta morte in uno scantinato mentre lavoravano a 3,90€ l’ora. Un’operaia sopravvissuta, dal letto d’ospedale, difende quel datore di lavoro che gli ha offerto quel pur misero stipendio. Ed è una difesa sincera. Io ho vissuto i miei primi vent’anni di vita in Puglia, e credo a quella paradossale riconoscenza. La descrive bene Nicola Lagioia in “Riportando tutto a casa”, riporto alcuni stralci:
Il giorno dopo, papà mi svegliò all’alba. Facemmo colazione con latte e caffè mentre il rosa del cielo contagiava lentamente la cucina. Si spazzolò i calzoni da qualche briciola di fetta biscottata. Accostò l’orecchio alla porta del corridoio per verificare se la mamma fosse sveglia. «Si parte?» disse raccogliendo dal pavimento la sua ventiquattrore di pelle.
Uscimmo da Bari a bordo di questo Fiorino bianco il cui chilometraggio era stato azzerato un numero di volte sufficiente a coprire parecchi giri della linea equatoriale. Oltre i confini della città si aprivano scenari leonardeschi con l’aggiunta dei metalli economici: campi di fango a bordo strada, cieli carichi di nubi e dappertutto muri sottili di lamiera che avanzavano di giorno in giorno per contenere l’espansione della proprietà privata. Il Fiorino rallentò a pochi metri dai primi centri abitati.
Bitetto, Triggiano, Capurso, Cellammare… Nei paesini ci aspettavano le ricamatrici. Mio padre le riforniva di lino, di seta, di cotone e loro trasformavano quei semplici tessuti nella dote di qualche ricca sposa di cui non si avevano notizie fuori dei rendiconti dei dettaglianti. Erano donne anziane, spesso vecchissime. Le loro case, ai margini di vicoletti o strade senza uscita, erano strani paradossi temporali: si respirava un’atmosfera prerisorgimentale ma tra i bracieri, i tavolacci di legno, le gabbie piene di conigli c’erano anche i televisori e rediosveglie.
[...]
D’accordo i conigli sgozzati. D’accordo il braciere e le gengive scoperte. Ma le mani! Che cos’erano le mani di quelle donne… Secche, legnose, piene di nodi e chiazze rosse, portavano l’ago da una parte all’altra del tessuto con una velocità, una regolarità, una precisione. Sembravano governate non da un dio, ma da un destino anteriore alle scritture. Neanche la malattia: solo la morte poteva fermarle. Per il resto se ne fregavano dei glaucomi e dei disturbi mentali: era sufficiente che almeno una volta ci fosse stato un dialogo tra il loro tessuto nervoso e il corpo cellulare di un singolo neurone – ed ecco un punto croce, un punto smock, un fiore di seta, un grappolo d’uva…
Non appena quel giorno entrammo in casa loro, almeno venti mani smisero di ricamare e si posarono in attesa sulle gonne. Diciotto occhi si abbassarono. Annina abbandonò la sedia e ci venne incontro. Mi accarezzò la faccia. Poi abbracciò mio padre con la profonda benevolenza che si potrebbe riservare a un figlio fragile che ha incontrato la fortuna. Iniziarono a parlarsi in dialetto. Tra quei violenti raddoppi di consonanti non ero mai stato a mio agio: dei loro discorsi non capivo quasi niente. [...] Mentre mio padre e Annina continuavano a parlare, due di loro si diressero con discrezione verso la cucina. Un’altra alleggerì il passo e imboccò la scalinata che portava in magazzino. Annina fece cenno a mio padre di aspettare, si allontanò verso la camera da letto. Tornò da noi circondata dal silenzio, con una pila di lenzuola ricamate tra le braccia. Poggiò la merce sul tavolo. Papà le consegnò la busta col contante. La stanza tornò a riempirsi allora di voci e di sorrisi: le altre donne iniziarono a muoversi verso di noi, all’improvviso eravamo completamente circondati. Portavano il caffè. Portavano vassoi pieni di ciliegie, cartellate, fichi secchi e altri doni votivi. Dicevano: «Vogliate gradire! Vogliate gradire!» con uno sguardo di riconoscenza che superava il soffitto della casa.
Come la maggior parte dei ragazzi, soffrivo di una certa ipersensibilità a basso costo per le situazioni dispari. Eppure, non avvertì una vera sproporzione di ruoli. Noi avevamo il Fiorino e la Bmw, tra poco saremmo andati a stare in villa mentre loro vivevano in una specie di stamberga e intraprendevano il suffragio universale come supplemento d’obbedienza degli abbagli dei mariti. Però il denaro non le contaminava come faceva con noi. Fuori dalla casa di Annina il nostro rapporto non avrebbe potuto definirsi se non con il nome di sfruttamento. Ma dentro… dentro si consumavano questi bonsai si scene bibliche: l’assenza di malizia spaccava interi oceani di studi sulla lotta di classe.
Quella raccontata da Lagioia e quella riportata dai giornali su Barletta è una storia si sfruttamento solidale, che si è stratificata nei decenni, forse nei secoli, che guarda in faccia chi lavora, e che qualche volta ci muore insieme negli scantinati, ma è pur sempre sfruttamento, e per questo va sradicato, ma non si può pensare di farlo con la burocrazia e con un decreto (ammettendo che ci fosse un esecutivo interessato a farlo), parliamo di sistemi che hanno trovato un equilibrio spontaneo, seppur precario, in sistemi chiusi o semichiusi come erano alcune aree del mezzogiorno, equilibri che sopravvivono anche nell’era della globalizzazione perché funzionali ai nuovi sistemi di produzione, al neo-capitalismo. Le maglierie di Barletta non sono un problema di Barletta, non sono una storia di miseria che inizia e finisce in una sconosciuta neo-provincia che risponde all’acronimo di Bat, sono un problema della comunità intera, se crolla il seminterrato crolla tutto il palazzo, anche il lussuoso attico.