Il New York Times ha appena pubblicato un interessante articolo sul perché Apple ha deciso di demandare la produzione della maggior parte dei suoi dispositivi alla Cina.
L’analisi parte da un incontro dello scorso febbraio tra Barack Obama e Steve Jobs, durante il quale il presidente ha chiesto al manager come mai la società preferisse produrre i suoi prodotti oltreoceano.
“Fino a poco tempo fa, Apple affermava che i suoi prodotti erano ‘Made in America’, ma quasi tutti i 70 milioni di iPhone, i 39 milioni di iPad e i 59 milioni di altri dispositivi venduti lo scorso anno sono stati realizzati oltreoceano”, sottolinea il quotidiano. Alla domanda di Obama sulla possibilità che la produzione potesse tornare negli Usa, la risposta di Jobs è stata perentoria: “Quei posti di lavoro non torneranno”.
Il motivo? Non propriamente soltanto una questione economica: non è insomma soltanto un fatto legato al costo della manodopera, meno costosa in Cina, quanto una questione di ‘flessibilità’ degli impianti e di ‘diligenza’ e ‘competenza industriale’ dei lavoratori non americani.
Tutto questo fa sì che il ‘Made in USA’ non sia un’opzione ulteriormente perseguibile per Apple, che conta 43 mila dipendenti negli Stati Uniti e circa 20 mila all’estero. Molti di più i lavoratori dell’indotto – quelli cioè che costruiscono e assemblano iPhone, iPad, Mac e gli altri prodotti – stimati nell’ordine dei 700 mila e nessuno di loro è situato negli Usa.
Calcola il NYT che lo scorso anno Apple ha guadagnato oltre 400 mila dollari per dipendente, più della Exxon o di Goldman Sachs.
Alla base della scelta di produrre in Cina, hanno spiegato alcuni dirigenti, la flessibilità e la velocità di produzione degli impianti collocati nel Paese, ineguagliabile negli Usa.
Ad esempio, quando si è dovuto apportare delle modifiche allo schermo dell’iPhone a pochi giorni dal lancio, costringendo a una revisione della catena di montaggio, gli 8 mila dipendenti dell’azienda cinese che doveva occuparsene sono stati richiamati a lavoro nel cuore della notte – grazie anche al fatto che il dormitorio è spesso situato all’interno dello stesso impianto – e in meno di 96 ore si stavano producendo circa 10 mila iPhone al giorno.
Nessun impianto situato negli Usa avrebbe potuto fare lo stesso, soddisfacendo la richiesta di un arrabbiatissimo Steve Jobs che a poche settimane dal lancio del primo iPhone si era accorto che lo schermo si graffiava troppo facilmente per un dispositivo che molti avrebbero tenuto in tasca, accanto alle chiavi o ad altri oggetti che avrebbero potuto scalfirlo.
“Vendiamo iPhone in 100 paesi. Non abbiamo l’obbligo di risolvere i problemi americani. Il nostro obbligo è quello di produrre i prodotto migliori” ha osservato un manager di Apple, che comunque non è l’unica azienda ad agire in questo modo.
Come ha sottolineato sempre al NYT Betsey Stevenson, capo economista del Dipartimento del Lavoro fino allo scorso settembre, ormai l’efficienza e la produttività hanno avuto la meglio sulla ‘generosità’ verso il proprio paese.
“Prima le aziende sentivano l’obbligo di sostenere l’occupazione in America, anche quando non era la scelta migliore a livello finanziario. Ora questo non c’é più” ha affermato.
Lo stesso discorso che potrebbe essere valido anche per l’Europa: un altro dirigente ha sottolineato che da tempo ormai gli Stati Uniti hanno smesso di formare abbastanza lavoratori per soddisfare le esigenze di produzione in fabbrica.
Il governo cinese, di contro, ha finanziato la creazione di città-fabbrica in grado di assumere 3 mila lavoratori dalla sera alla mattina, una cosa inimmaginabile in qualsiasi altra parte del mondo. Basti pensare, poi, che la sola Foxconn – dove lavorano 230 mila persone – impiega 300 guardie che si occupano di dirigere il traffico ‘a piedi’, di modo che non si creino ingorghi tra le persone che si dirigono al lavoro e quelli che finiscono il loro turno. La mensa dell’impianto cucina in media tre tonnellate di carne di maiale e 13 tonnellate di riso al giorno.
Alla Foxconn – che produce anche per conto di Amazon, Dell, Hewlett-Packard, Motorola, Nintendo, Nokia, Samsung e Sony – un operaio guadagna in media 17 dollari al giorno. Vari studiosi hanno calcolato che se l’iPhone fosse assemblato in America, costerebbe almeno 65 dollari in più, dato il costo di uno stipendio negli Usa.
Lo stesso dicasi per la capacità della Cina di reclutare ingegneri qualificati: sottolinea sempre il NYT che Apple aveva stimato che le servissero 8.700 ingegneri per supervisionare una catena di montaggio di 200 mila lavoratori. Per reclutarli, negli Usa ci sarebbero voluti almeno nove mesi. In Cina ci sono voluti 15 giorni.
Inoltre, i moderni dispositivi come l’iPhone o l’iPad necessitano di centinaia di piccoli componenti che devono tutti essere prodotti nella stessa area. Tutto questo sarebbe impossibile da trasferire negli Usa.
Lo stesso Tim Cook ha ammesso che la catena di fornitura asiatica è ineguagliabile: “non possiamo competere”, ha affermato.
Lo scorso anno, il fatturato di Apple ha raggiunto i 108 miliardi di dollari, una somma superiore ai bilanci combinati di Michigan, New Jersey e Massachusetts.
Dal 2005 il prezzo delle azioni è passato da 45 dollari a più di 427 dollari. Parte di questa ricchezza è andata agli azionisti, ma anche i lavoratori ne hanno beneficiato, ricevendo azioni per un valore di 2 miliardi di dollari.
Al termine del summit col presidente Obama, Jobs – riferisce sempre il NYT, avrebbe affermato: “Non sono preoccupato del futuro a lungo termine degli Stati Uniti. Siamo una grande nazione. Quello che mi preoccupa è che non si parla abbastanza delle soluzioni”.
E’ interessante, infine, sottolineare che il componente più importante dell’iPhone è il processore, che è prodotto in Texas. Ma da Samsung.
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