Chi sono dunque i precari della ricerca? Secondo Orioli (vicedirettore de Il Sole 24 Ore) i precari della ricerca sono coloro che hanno "contribuito a svolgere un corso di un mese"; sono coloro che hanno seguito "un corso post-doc di 2-3 anni" e che solo per questo si permettono di "opzionare un posto nella carriera universitaria "; un precario è anche solo un "dottorando di Phd".
Strano che un giornalista non si informi su chi sono i precari. Se l'avesse fatto avrebbe scoperto che si tratta di borsisti, co.co.pro., assegnisti di ricerca - siamo in tutto circa 60.000 - molti dei quali tra i 30 e i 35 anni che contribuiscono al grosso numero delle pubblicazioni nazionali e internazionali delle nostre università. Ma forse Orioli si è fermato al folklore del precariato, quello che va a finire sui giornali e ci dipinge come casi umani: un tantino preoccupante, per un vicedirettore di giornale.
Cosa riserva la riforma dell'Università a questi e ai futuri precari, quelli che oggi frequentano un corso di dottorato? La riforma epocale della Gelmini istituisce due tipi di contratto di ricercatori a tempo determinato: uno con tenure track e uno senza tenure track. La tenure track, presa a prestito dalle migliori università straniere, è un contratto al termine del quale, previa valutazione positiva dell'attività di ricerca, l'università si impegna ad assumere a tempo indeterminato nel ruolo di professore associato.
Finalmente, sembrerebbe, ecco il merito fare l'ingresso negli atenei dalla porta principale. Ma la tenure track alla Gelmini è una presa in giro perché la valutazione del ricercatore avviene solo nell'ambito delle risorse disponibili per la programmazione. In altre parole, l'università decide a priori in maniera insindacabile chi valutare. Chi non sarà valutato per mancanza di risorse o perché poco gradito ai baroni locali si ritroverà fuori dal sistema universitario, con un titolo di dottorato che sul mercato del lavoro italiano ha pochissimo valore. Certo, avrà un titolo preferenziale per partecipare ai concorsi nelle pubbliche amministrazioni, non il massimo per chi molto probabilmente avrà collezionato un discreto elenco di pubblicazioni internazionali.
Il secondo punto preoccupante della riforma, è che, per i motivi di cui sopra, non è prevista alcuna norma che costringa gli atenei a bandire in numero congruo di tenure track. Per dire, la normativa in vigore destina all'assunzione di ricercatori a tempo indeterminato il 60% delle risorse provenienti dal turn-over. E allora le università, in balie delle finanziarie, è quasi certo che si limiteranno a contratti a tempo determinato senza tenure track, più flessibili e meno onerosi che sono più che sufficienti a coprire le esigenze della didattica e della ricerca.
E come fa notare Giorgio Parisi sul Manifesto:
La situazione è resa drammatica dalla drastica riduzione dei finanziamenti: contrariamente a quanto alcuni esponenti della maggioranza sostengono alla televisione e sui giornali, ignorando bellamente le cifre ufficiali, il finanziamento dell'universitàè calato del 7% dal 2009 al 2011 (di più del 10% se teniamo conto anche dell'inflazione), bloccando di fatto il turn-over e la possibilità di dare spazio ai giovani al posto dei tanti anziani che vanno in pensione. Assistiamo a una decadenza dell'università pubblica italiana che in pochi anni potrebbe diventare irreversibile: se le giovani generazioni lasciano l'Italia o la cultura, creano un buco che non può essere riempito.
Questo è anche il motivo per cui non si possono separare gli aspetti strutturali previsti dal ddl da quelli finanziari poiché l'effetto reale della riforma sarà dato dall'insieme delle due cose.
Certo poi si leggono per esempio sciocchezze come quelle di Irene Tinagli nei suoi editoriali su La Stampa che addirittura immagina la paura dei precari di fronte a orde di scienziati stranieri in coda per venire a lavorare in Italia. Francamente è difficile che accada. Oppure si leggono le granitiche certezze di Giavazzi sul Corriere della Sera.
L'abbiamo capito noi precari, ricercatori e studenti, che l'Università la viviamo dal di dentro, che questa riforma soffoca i sogni, le aspirazioni, e le legittime ambizioni di una, forse due generazioni. Per quale ragione un precario della ricerca o un giovane che stia per conseguire un PhD non dovrebbe lasciare questo paese non avendo nessuna certezza per il futuro? O perché i ricercatori che già lavorano all'estero dovrebbero rientrare? perché un disegno di legge dispone per loro incentivi fiscali fino a 25 mila euro?