Siem Reap, 23 agosto
La prima impressione è quella di bonaria inefficienza. Appena atterrati all'aeroporto di Siem Reap, nel nord-ovest della Cambogia, si viene accolti da un manipolo di funzionari di dogana in divisa, mezzibusti in verità, seduti uno dopo l'altro dietro a un lungo bancone di legno lucido. Siamo in un piccolo scalo di provincia, reso importante dalle frotte di turisti che arrivano ogni giorno per vedere i famosi templi di Angkor. Qui lo sanno tutti e hanno pensato di accontentare subito i nuovi arrivati piazzando in mezzo alla stanza una teca in cristallo con dentro un modellino in perfetta scala dell'Angkor-wat. Torna utile come punto di appoggio per compilare l'intricato form per gli stranieri in entrata. Il piccolo aereo di AirAsia in arrivo da Bangkok (o dall'Antartide a giudicare dalla temperatura respirata in cabina) ha appena scaricato un centinaio di persone sull'asfalto caldissimo; ora si trovano tutti in fila davanti al più anziano degli ufficiali impettiti, con le carte per il visto in equilibrio tra le mani già sovraccariche. A qualcuno cade il passaporto, un cinese di mezza età si accorge di non avere abbastanza contanti in tasca, una ragazza spagnola protesta energicamente perché non le hanno mai dato i dieci dollari che le spettavano di resto.
In dogana saranno in dieci, ma la fila è rigorosamente unica, modello ufficio postale italiano dei primi anni novanta. Dietro il bancone si passano il passaporto di mano in mano. Il primo prende nota del nome, il secondo controlla il paese di provenienza, il terzo confronta la foto con quella dell'attentatore di Bangkok e così via, fino a una decina di metri più in là dove, finalmente, viene apposto il fatidico timbro. Il Regno Unito di Cambogia ci apre le sue pesanti porte quel tanto che basta da scorgere all'uscita degli arrivi internazionali un ragazzo minuto con in mano un cartello con il mio nome. È alto 1 metro e mezzo, ha gli occhi a mandorla quel tanto che basta e la carnagione giallastra, non sa dire la "erre" e saluta tutti con un reverenziale inchino a mani giunte. Un cambogiano, insomma.Il tempo di caricare gli zaini ed eccoci sul sedile posteriore di questo improbabile tuktuk. Appoggio il sedere su un rivestimento di stoffa di colore dorato, alcuni pesanti drappi la contornano ai lati, come una tenda fuori moda di una polverosa villa di campagna.Per chi non avesse ben presente il concetto, è opportuno sapere che il non plus ultra del trasporto locale è rappresentato da un cinquantino a cui qualcuno, come per divina punizione, ha agganciato sul retro una sorta di carrozza ottocentesca. Il rumore è notevole, la velocità appena accettabile ma almeno non ci sono i cavalli a fare la cacca.E così, sentendomi come una specie di Karen Blixen in versione asiatica in una delle prime scene de "La mia Africa", prende il via con il vento sulla faccia questa prima giornata nella terra dei Khmer.
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