Se da anni in cima alle varie liste delle 10-20-100 cose da fare prima di morire c'è la visita ai tempi di Angkor ci sarà un motivo. Lo hanno capito anche i cambogiani che negli ultimi dieci anni hanno costruito attorno al rinomato sito archeologico una fiorente industria del turismo dove tutto costa un dollaro (da una bottiglietta d'acqua a 2 Kg di frutta) e c'è persino chi si azzarda a vendere cartoline o noleggiare biciclette.I templi di Angkor, complici la bollente aria umida e gli scaloni di pietra sconnessi da salire a carponi, sono davvero da mozzare il fiato. Una tradizione millenaria, che ha avuto il suo apice nel periodo d'oro tra il 700 e il 1200 circa e poi inghiottita nel nulla, che ha prodotto queste opere architettoniche senza pari.
I "dio-re" di una volta erano un filo megalomani e la ricerca del modo migliore di compiacere gli dei passava attraverso la creazione di questi templi e città fortificate, a dir poco sontuosi. Per tirare su la baracca, dicono, bastavano a malapena 80.000 uomini e più di 1000 elefanti. Quando si salgono uno dopo l'altro i tre livelli successivi in cui è strutturato l'Angkor-Wat, il più grande e sfarzoso tra i templi, ci si fa un'idea del motivo. L'atmosfera è stranamente familiare e, dopo poche ore a camminare tra questi ammassi di pietre coperte da bassorilievi, cunicoli con le ragnatele, radici mostruose di alberi immensi non si fatica a capire come mai. Siamo già stati qui varie volte, perlomeno durante l'infanzia e l'adolescenza. Di qui sono passati quel tamarro stempiato di Indiana Jones e le tette Angelina Jolie nel più recente "Tomb Raider", sobbalzando ad ogni salto nel vuoto. Alla moglie di Brad Pitt, però, nessuno ha chiesto di mettere i pantaloni lunghi e di coprirsi le spalle per entrare al Bayon, l'enigmatico tempio fatto costruire dal sovrano Jayavarman VII con la sua effige ripetuta in 216 grosse facce dal sorriso vuoto, a tratti inquietante, lo sguardo diretto in tutte le direzioni come un grande fratello d'epoca pre-televisiva.
Ogni angolo, comunque, rimanda alla mente immagini già viste di botole che si aprono nel vuoto, dardi acuminati lanciati dalle pareti, raggi di sole che a mezzogiorno del decimo giorno di qualche antico calendario babilonese battono su un vecchio talismano aprendo oscuri passaggi.Fa un caldo bestia, la scalinata per salire fino alla più alta delle 5 torri, quella che rappresenta il monte Meru, è ripida e affollata. Del resto stiamo andando a casa di Dio e in questo momento ci troviamo a più di 50 metri dal livello della strada dove ci attende l'autista, svaccati su un'amaca tesa tra in diagonale sul vano posteriore dello sgangherato Tuk Tuk.Siamo arrivati all'alba, per vedere il sole sorgere sulle torri del tempio ai bordi di un largo stagno con i fiori di loto dove le imponenti torri si specchiavano facendosi largo tra i mille colori del nuovo giorno.
I templi di Angkor non sono in centro città come accade a San Pietro, ma nel bel mezzo di una foresta verde e fittissima. La vegetazione nei secoli li ha inglobati e nascosti, a tratti proteggendoli, altre volte imprigionandoli e sgretolandoli in maniera irreparabile. Chissà se si illudeva, la gente di Angkor, di aver messo fine alla lunga sfida tra uomo e natura, adagiata all'ombra di queste mura spesse, solide e in apparenza inattaccabili. Ma sei secoli, per questa terra, non sono che un battito di ciglia. Ed ecco le liane della foresta farsi avanti di giorno in giorno, le radici degli alberi creare squarci sui pavimenti dei palazzi abbandonati, muschi e licheni coprire bassorilievi raffiguranti le storiche battaglie e la pioggia scavare il volto delle Apsara scolpite nelle pareti.
"La città, per secoli sepolta, fu in tempi remoti uno degli splendori del mondo. Come il vecchio Nilo aveva fatto sbocciare nella sua valle, grazie al limo, una civiltà meravigliosa, così il Mekong, spandendo ogni anno le sue acque, aveva deposto fertilità e preparato il fastoso impero Khmer. Sembra che, al tempo di Alessandro il macedone, un popolo emigrato dall'India fosse venuto a installarsi sulle rive di questo grande fiume dopo aver sottomesso gli spauriti indigeni (dagli occhi piccoli, adoratori dei serpenti). I conquistatori portarono al proprio seguito gli dei del bramanesimo, le belle leggende del Ramayana, via via che su questo fertile suolo cresceva la loro ricchezza, costruirono dappertutto giganteschi templi cesellati da 1000 statue. Qualche secolo dopo, per quel che si sa giacché l'esistenza di questo popolo si è molto affievolita nella memoria degli uomini, i potenti re di Angkor videro arrivare da occidente missionari vestiti di arancione, portatori della nuova luce che meravigliava il mondo asiatico: il Buddha, precursore di suo fratello Gesù, aveva illuminato l'India e i suoi seguaci si espandevano per l'Asia Estrema a predicare la stessa morale di pietà ed amore che i discepoli di Cristo avevano da poco portato in Europa. Allora i rudi templi di Bramha si trasformarono in templi buddisti; le statue sugli altari cambiarono la postura e abbassarono gli occhi, mostrando sorrisi più dolci. Sembra che la città di Angkor abbia conosciuto il suo apogeo di gloria durante il buddhismo. Ma la storia del suo rapido e misterioso declino non è mai stata scritta, e la foresta che l'ha invasa ne custodisce il segreto. L'odierna piccola Cambogia, conservatrice di complicati riti dalle significato perduto, è l'ultimo frammento del vasto impero dei Khmer che da più di 500 anni si è dissolto nel silenzio degli alberi e dei licheni."
Pierre Loti, un pellegrino ad Angkor, 1901
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