Phnom Penh, 5 settembre
Se c'è una cosa che proprio non si può perdonare ai Khmer rossi è quella di aver scelto un liceo. Già, perché quando varchi il cancello in ferro di S-21, così si abbrevia l'"Ufficio di Sicurezza 21", versione più edulcorata del più appropriato "campo di concentramento", ti rendi subito conto di essere all'interno di quella che appare una scuola come tante.Il cortile, ampio e luminoso, è solcato al centro da un giardino verde su cui gettano ombre irregolari una dozzina di piante ad alto fusto che, 40 anni fa, dovevano essere poco più che giovani arbusti. Le classi, disposte su tre piani ordinati e simmetrici, definiscono i tre lati di questo edificio rettangolare sistemato nel centro della capitale. Il traffico della strada, con il classico carosello di clacson e marmitte non proprio catalitiche tipico del sud-est asiatico, è un fastidioso brusio di fondo che si interrompe bruscamente, una volta entrati nelle ampie stanze, scarne, fresche e dagli spessi muri ricoperti da vernice scrostata.
L'ambasciata cinese, l'unica della capitale che non venne abbandonata durante gli anni bui che attraversarono la Cambogia nella seconda metà degli anni 70, è a pochi passi da qui, il che getta una triste ma più che verosimile ombra sulla complicità di Pechino nel lustro più buio di questa piccola parte di Indocina. Si dice che le urla dei detenuti, impiccati fino a quasi perdere conoscenza, bastonati e frustrati, sottoposti a ripetute sedute di elettroshock risuonassero così forte nelle stanze degli ambasciatori cinesi da costringerli a tenere chiuse le finestre nei giorni in cui, la prigione, riusciva a contare anche 100 morti in un giorno. I cinesi sapevano, ma non fecero nulla ("sono affari loro", mormoravano nei palazzi del governo, ben più interessati ad espandere il loro potere politico in opposizione al blocco sovietico che spalleggiava il Vietnam).
Nelle torrette agli angoli, i gradini consunti delle larghe scale in muratura, in un diabolico cocktail di storie che si accavallano, raccontano di torme di adolescenti ridanciani di corsa al suono della campanella e prigionieri con le caviglie strette in dolorose catene di ferro arrugginito.Il giorno di ferragosto 1975, Phnom Penh finalmente presa da uno dei regimi comunisti più sanguinosi della storia, il liceo Tuol Svay Prey cessò di essere fucina di giovani menti Khmer per trasformarsi in centro di detenzione e tortura per oppositori del regime, intellettuali, stranieri e presunte spie. Nei 4 anni di fiorente attività della prigione passarono di qui più di 20.000 detenuti, non solo oppositori politici (peraltro spesso pacifici) ma soprattutto l'elite illuminata del paese, borghesi, donne e bambini che fossero anche solo sospettati di tramare contro Pol Pot e compagnia bella o anche solo di avere un diploma.
Credo che in questo rovesciamento di ideali, inferno dantesco in cui una scuola si fece barbara macchina di distruzione della propria cultura, stia la testimonianza più affidabile di quanto crudele e spietata fosse la logica del terrore a cui si dovette piegare questo popolo, già stravolto da decenni di guerre ingiuste.Si dice che S-21 fosse solo la punta dell'iceberg del fitto e complicato sistema di carceri del regime, ma come tutte le punte era anche tremendamente affilata.Sul lato est del cortile sono in bella vista le tombe imbiancate a calce dei 13 detenuti che, nel giorno del 1979 la capitale venne liberata dai vietnamiti, furono uccisi nell'attimo prima di abbandonare rocambolescamente la prigione in un ultimo, vergognoso, messaggio di odio.All'interno delle aule è allestita una mostra fotografica permanente con i ritratti di alcuni dei prigionieri in una litania di piccole istantanee in bianco e nero in cui i soggetti, perlopiù giovani e donne, reggono tra le mani un cartello con un numero. Nella prigione dovettero cambiare più volte il sistema di numerazione per riuscire a catalogare tutti. I registri vennero compilati con dovizia di particolari fino a metà del 1978 poi, visto il crescente numero di ospiti, le testimonianze si fecero più rarefatte. "Registrate solo i detenuti più importanti per risparmiare tempo e soldi", erano gli ordini dall'alto. Gli sguardi non sono spenti e rassegnati come ci si potrebbe aspettare, molti fissano in camera con fare sprezzante, altri sembrano semplicemente indifferenti, altri ancora, forse per la prima volta davanti a una macchina fotografica, sorridono persino. C'è anche un piccolo gruppo di occidentali che qui tristemente perirono, colti di sorpresa e imprigionati in quel giorno triste in cui i Khmer Rossi presero la città.
Le grandi stanze che prima ospitavano banchi e lavagne (qualcuna si scorge ancora appesa su qualche muro scrostato) furono suddivise in minuscole celle di 70x220 cm dove i prigionieri, seminudi e scheletrici, attendevano il loro destino nel più cupo silenzio. All'ingresso ci sono vari cartelli che impongono ai visitatori di non ridere e che sembrano quantomai superflui in questa valle di lacrime in cui la rabbia fa a gara con la tristezza nel saturare l'aria calda. Ci sono zanzare dappertutto: alcune sono appoggiate sornione alle fotografie, altre volano da un corpo all'altro dei turisti smanicati e cosparsi di Autan, altre ancora si posano su alcuni teschi, esposti in bella mostra in una stanza laterale. Alcuni sono piccoli, bambini, quasi certamente. L'edificio B è quello delle torture, dove avvenivano gli interrogatori. Ai prigionieri venivano strappate le unghie dei piedi, schiacciati i capezzoli in una morsa o frustata la schiena. In un angolo ci sono due ampi otri di terracotta che venivano riempiti di acqua gelata per far riprendere conoscenza agli interrogati quando svenivano dal dolore. Un decalogo su come rispondere alle domande incalzanti dei secondini è esposto su rudimentali pannelli in fronte alla porta d'ingresso. Il balcone su cui si affacciano le celle è rivestito da una spessa trama di filo spinato, che serviva a impedire ai detenuti di suicidarsi.
Dei 20.000 prigionieri che passarono di qui ne sopravvissero solo 7 di cui solo 3 ne rimangono in vita. Me li immagino a mille miglia da qui, a tentare di sopraffare il ricordo macabro di quei giorni d'inferno.Mi stupisco, quindi, a trovarne due proprio qui, all'uscita della prigione. Hanno un banchetto di libri dove presentano l'attività dell'associazione che tenta ancora faticosamente di ricostruire la verità attraverso centinaia di testimonianze.Si chiamano BOU MENG e CHUM MEY. Il primo si salvò grazie alla sua esperienza di meccanico. Durante la prigionia più volte fu utile ai militari per un motore guasto o qualche apparecchio difettoso e, in cambio, ebbe salvo la vita o quello che ne rimaneva. Alla sua famiglia non toccò la stessa sorte. Il secondo, originario di un piccolo villaggio a vocazione agricola nel sud del paese, sin da piccolo nutriva la passione per il disegno tanto che una giovane maestra della scuola primaria, un giorno che lo sorprese a tracciare delle linee sulla sabbia con un bastone ritraendo un cavallo, lo convinse a studiare arte e pittura. Il giorno che fu imprigionato lo misero davanti a un gerarca dei Khmer Rossi che, appresa questa sua abilità, gli puntò la pistola alla fronte: "fammi un ritratto, se lo giudicherò abbastanza somigliante continuerai a vivere, altrimenti ti ucciderò". Il disegno piacque molto. A giudicare da tutti i pannelli illustrativi con la rappresentazione delle torture e della vita di prigione in quegli anni, in effetti, Mr. Chum aveva del talento.Ogni giorno alle 12.00 proiettano un lungo filmato in cui, davanti a una telecamera raccontano la loro vicenda. Con la voce rotta dalle lacrime raccontano di come, a distanza di quarant'anni, ancora si svegliano la notte sopraffatti dagli incubi.Mi stringono la mano, sorridendo e dandomi il loro colorato biglietto da visita. Lo metto in tasca, deciso a ricordarlo come un curioso souvenir dall'inferno.Ogni giorno vengono qui centinaia di visitatori, tra cui molti cambogiani. I soldi del biglietto vanno ai pochi sopravvissuti e a un centro di ricerche che si occupa di indagare le sorti di quanti, ancora senza nome, furono trovati qui. C'è anche un negozio pieno di cianfrusaglie, presunto argento a poco prezzo, sciarpette colorate, libri sul tema e DVD piratati. Mi guardo in giro cercando l'immancabile statuetta di Buddha Made in China, ma non la trovo. Ci sono le facce dei templi di Angkor, serpenti di legno e persino gli animali della foresta, ma di dio neanche l'ombra.
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