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Nell’evidente difficoltà di proporre un melodramma classico sul panorama del cinema contemporaneo, il lavoro che Haynes ha fatto in “Carol” è stato minuzioso in tutte le fasi della messinscena. A partire dalla ricostruzione scenografica – da notare sia gli esterni ricreati in digitale che gli interni curati in ogni dettaglio – a quella dei costumi – Haynes ha fatto sì, ad esempio, che il personaggio interpretato da Cate Blanchett fosse ispirato, sia nel vestire che in alcune peculiarità che caratterizzano il personaggio, a Vittoria de “L’eclisse” di Antonioni – si crea in chi guarda un processo di immedesimazione per cui la credibilità con cui gli anni ’50 vengono riproposti fanno aumentare l’attrito con la storia d’amore tra due donne.
Mentre a sostenere il discorso che facevamo circa il reparto scenografia e costumi interviene anche l’accurata scelta dei brani inseriti nella colonna sonora – tra i tanti citiamo “Easy living” di Billie Holiday e Teddy Wilson – sul piano visivo Haynes lavora mantenendo uno stile di ripresa classico che comprende l’uso di gru, movimenti di steadycam, inquadrature fisse – quest’ultime spesso utilizzate per i controcampi di quinta nei quali la profondità di campo viene sublimata dalla presenza di comparse e/o oggetti posti sull’asse – facendo un’eccezione per il primo viaggio in macchina delle due, dove i dettagli di occhi e bocche vengono riprese con la camera a mano che spezza col resto aiutata anche dalla fotografia, che se in quel frangente è volutamente eccessiva, durante il resto del racconto combacia perfettamente con gli intenti del regista – di non poco conto la scelta della pellicola come strumento narrativo –. Ancora, ed è uno dei particolari che caratterizza la pellicola, da notare l’uso quasi ossessivo che Haynes fa dell’immagine speculare e dell’elemento vitreo inserito come una sorta di quinta parete – i personaggi vengono spesso inquadrati dal di fuori dell’abitacolo quando sono in macchina (quindi filtrati dal finestrino), dietro le vetrine dei negozi, quando sono all’interno di una cabina telefonica –. Non si può non far cenno, infine, al lavoro fatto sulla direzione degli attori, dove la supremazia tecnica della Blanchett (come detto sopra ispirato a Monica Vitti) viene arginata – anzi, ad avviso di chi scrive, superata – dalla naturalezza con la quale Rooney Mara coglie ogni sfumatura non solo del proprio personaggio ma anche di chi le sta affianco sulla scena, rendendo l’interscambio attoriale una colonna portante del film: la scelta dei rispettivi (meravigliosi) sguardi in macchina delle due protagoniste, sul finale, fa crollare tutto ciò che era stato mostrato, quinta parete compresa.
Antonio Romagnoli
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