Criminali già al tempo del Regno delle Due Sicilie, i due fratelli campani Cipriano e Giona la Gala riuscirono nel 1860 a fuggire dal carcere di Castellammare, nel quale si trovavano rinchiusi per i gravi reati commessi, approfittando del clima di generale confusione che regnava a quel tempo nell’ Italia meridionale.
Si trovava in cella con loro un tal Francesco de Cesare, il quale commise durante una lite con i due fratelli l’errore, poi rivelatosi fatale, di schiaffeggiare Giona. L’episodio sembrava ormai consegnato all’oblio, quando diversi mesi dopo il fatto (settembre 1861) , i la Gala inviarono all’ex compagno (nel frattempo tornato sulla strada della legalità) un contadino, tal Cosimo Matera, per chiedergli di raggiungerli per un incontro amichevole. Nonostante fosse stato messo in guardia sulle intenzioni dei due masnadieri, decise comunque di accettare; arrivato nella la località convenuta, il borgo di Pizzillo, de Cesare fu inizialmente accolto con entusiasmo e cameratismo dai la Gala, che gli si gettarono al collo, baciandolo ed abbracciandolo. Ma le cose avrebbero preso molto presto una piega ben diversa. Arrivati alla masseria occupata dai briganti, Cipriano urlo: “Giona, scannalo!”. Un sodale dei due fuorilegge, Antonio Saracino, balzò allora con una corda, legando lo sfortunato che venne trafitto da decine e decine di pugnalate per poi essere finito con un colpo di fucile nel petto. Una volta ucciso, il de Cesare venne decapitato, gli fu messa una pipa in bocca e la testa collocata sul davanzale della masseria. Il corpo venne invece tagliato, gli fu tolto il grasso ed il resto venne abbrustolito e mangiato dalla banda.
Un altro brigante, l’ex mugnaio Gaetano Mammone, era invece famoso per l’ abitudine di bere il sangue delle sue vittime da un cranio usato come caraffa (in mancanza di sangue altrui, Mammone si salassava, bevendo il proprio). A costui, Ferdinando I delle Due Sicilie scriveva chiamandolo: “mio generale ed amico”.