Questa sua ultima raccolta ha il sapore netto della crescita, il viaggio intrapreso da Silvia Rosa nella poesia, continua senza ombra di dubbio, a mio avviso è ad un livello superiore che già si era intravisto nelle pagine di SoloMinuscolaScrittura.
Come preannuncia la Musetti, la parola è disvelata, nuda, intima e si lascia entrare senza riserve ed è esattamente così questa nuova fatica letteraria di Silvia Rosa.
Quattro le sezioni che la compongono: Orme – dove la parola cerca il più possibile una forma di contatto con la terra, cerca rifugio in essa e si ricrea; Amore centro – dove c’è questo amore “che preme sulle palpebre”, una presenza costante come nel testo “Ventuno grammi”; Per la costruzione di un’archeologia (futura) – che abbiamo avuto il piacere di farvi leggere in anteprima qui, c’è tutto il percorso di crescita, il senso della poetica di Silvia, che risuona perfettamente; chiude la sezione che dà il titolo alla silloge, ed è un percorso a ritroso della bambina/donna, del punto “madre” e della sua acuta richiesta “amami come sono”.
C’è maturità in questa silloge.
Tre testi scelti dalla silloge:
da Orme
INVERNI
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l’albero perde peso, foglia a foglia, a brandelli sotto le scarpe mi porto a casa i residui secchi del suo corpo che resta scheletro. resto scheletro anch’io quando perdo peso, foglia a foglia, ho le mani verdi e il corpo di legno, mi tolgo i vestiti a brandelli sotto le scarpe mi porto a casa i residui del mio corpo. – il freddo non esiste – l’albero si addobba di neve io divento candida bianchissima pura, ho un manto di morte addosso ora che non ho più peso a tenermi in piedi
*
l’inverno è questione di sguardi, è la curva di ghiaccio in cui scivolano mani e labbra fino alla nuda consistenza del corpo – un pupazzo di neve con una sciarpa rosso ciliegia sul petto, una macchia in tanto candore, una macchia che ricorda il sangue quando cola leggero, parola dopo parola, dentro a una terra di radici per aria che gelano di continuo. l’inverno è perdere la pelle per vestirsi di candore marziale e restare immobili dietro a una curva di ghiaccio, dove mani e labbra si sono perdute, una dopo l’altra, fino al bandolo incosistente del corpo che gira su se stesso, fiocco a fiocco – un pupazzo di neve con una sciarpa rosso ciliegia sul petto, una medaglia al valore che pesa più di un batuffolo infeltrito di lana e meno di una parola
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c’è nella neve la misura esatta d’ogni sottrazione, un manto d’assenza che riflette il cielo smalto turchese, e il cielo pare cadere a picco sprofondando in quel candore, e si schiude nel silenzio l’inizio e il passo del tempo più freddo passo dopo passo. allora ogni attesa si compie e si ritorna a un’infanzia di sguardi e desideri, si ritorna all’essenziale, e solo un’immagine si addensa nel biancore e pura, l’immagine della mano amata che si muove lenta nello spazio di una carezza ripetuta identica a qualcosa di perduto, un abbraccio tra un’immensità e l’altra, al centro, mentre intorno il bianco acceca e si sciolgono le ultime incertezze, tra le orme di animali in fuga in una corsa cieca, al limite del prima e del dopo, nel punto in cui il gelo si congiunge infine con la resa e la neve giace inerme e sembra chiedere resta qui, resta in questo mio per sempre.
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da Amore centro
TRIESTE
Trieste è un graffio, una cicatrice
una mezza luna circondata
di porpora, un sorriso breve
sul dorso della mano sinistra
fra vena e vena, un filo
che affiora l’estremità
– a partire dal cuore – in un nodo.
Trieste è un’unghia rotta, una macchia
più bianca nell’incarnato pallido
dell’assenza, un’ala di mosca,
un dettaglio indelebile, un segno
che non evapora e firma
una storia da un verso all’altro
della notte, fra labbra e labbra.
Trieste è andata e (non) ritorno
uno sbuffo di pioggia fredda
un dolore minuscolo che cresce
a ritroso nei giorni e si cristallizza,
uno scroscio di Bora, una voce
che tiene fra i denti un milione
di baci e ripete non sono abbastanza.
***
da Genealogia imperfetta
CONFUSE
Il ventre sorride tra il bianco netto di tutte le assenze
che attendono [origine] annidate in quel taglio
di pelle fiorito tra lo sguardo nascosto e la mano
non c’è appiglio uno che scardini il centro
che viri il dettato vagito silenzio di questo restare
nel corpo perduto un ricordo
di quando eravamo insieme, confuse
di quando la carne era nido soffice altare
e tutto era sangue ed eco di cuore – uno scoppio –
e tutto era madre.