Ha un dono Daìta, quello di rendere la poesia, sconfinata e di farlo con una raffinatezza che non ha eguali.
Innamorarsi di ciò che scrive è inevitabile.
Unica e la posso paragonare benissimo ai grandi poeti del passato che ci hanno fatto amare la poesia.
Ma torno a parlare della sua ultima creatura, dove lei qui sa scrivere del corpo toccandolo delicatamente, parlando di vita – morte e non come essere di “eros”.
La sua scrittura crea suoni, profumi percepibili anche scorrendo le parole o girando le pagine e contiene alla perfezione l’essenza che inebriano il lettore.
Lei si mostra quasi come se fosse nuda e il lettore legge tutto di lei, ma allo stesso tempo non riesce a vederne una fine, il suo corpo scrittura non ha fine.
L’originalità la caratterizza, mescolandosi a volte con parole secche/tronche, ma che formano una liaison che crea un ricamo così fitto, fino a diventare uno splendido scialle. La sua è una poesia malinconica, ma di spessore e penso che per lei la scrittura sia come una figlia e questo si legge bene in ciò che scrive.
Si nota la cura che mette e che ha verso la parola, lasciando addosso a chi la trascorre, una meravigliosa sensazione, trascinandoci infine a disegnare immagini indelebili.
Ma Daìta è anche quella Sicilia che resta nel sangue e quando scrive in dialetto diventa profondamente quella terra, e diventa completa, mostrata nell’insieme è una grande poetessa al pari di Ignazio Buttitta che lei stessa cita all’inizio della sua silloge.
E’ cresciuta dalla prima pubblicazione, diventando grande in tutti i sensi.
Antonella Taravella
Alcuni testi di Daìta Martinez:
{ non di più }
io
è tutto un dentro il vagito
in quell’adesso sfregiato al tempio
mentre l’aria si addormenta emigrati gli infissi
che scendono sposa fuori dalle labbra
ammorbidite radica
: e penetreremo il tramonto
noi
divorando l’asprezza del collo
e il richiamo nell’assenza di maggio
sacrario di fianchi imbottiti tra odori asciugati
ripresi d’abbagli spiegati abbassando la notte
{non di più}
vuotando negli occhi
***
| un comodino è pretesto di mezzo nel diaframma
deflessa moltiplicazione di stanza sospesa o poi
avvolta la sabbia capitata al sospetto degli scatti
avuti di sangue gli infissi sbucciati intorno ai piedi
scolpiti sui balconi al ridursi della scena nei vicoli
seguiti di alloro e le ringhiere fiorite sulla rotondità
della pancia incisa un momento torremuzza antica |
***
. dopo il tempo .
concepire .
una parola muta
segreta malinconia degli ulivi
e in cinta agli spilli
oscillano le palpebre
nell’aldilà di donna
chiusa in quel pronunciare accenno
che addormenta il sale riservato delle ore
tra fiori di loto
è memoria delle arance la strada
sfilza di sangue foderato dalle mani
appassite lampare d’inverno
mercato di accenti
il pane
modella fioriera affamata
. dopo il tempo .
una sedia impaglia
odorosa sottoveste del faggeto
e riversa lo strappo
anoressica voglia
filmata all’imbrunire confuso dei seni
acceso ricordo nella lotta
allungata all’inferno dissacrata promessa della croce
feconda
l’angelo nudo e carnoso
distillato il pasto nel sacrario di pietra
unge narcosi corolla sullo sfondo
opera alla deriva
la plastica
imbalsamata inflessione delle ali .
***
{ – }
schizofrenica insolenza delle acque
sgorgate odore sulla vertebra del tinello
sbottonata la marcia del polso nutrito d’avvento
che invade il sapore dei limoni attorcigliati tra
i guanti allevati suono in quel masticare verbo
come certe ore deglutite allo scadere della sera .
***
_ disabitata infrazione
del buio uno squarcio
quel bere dalla fodera
incarnata
_ sintassi nelle ciglia
e dovevamo nascere
per avvenirci ancora
***
{ ciuri pittati }
avissi a parrari ri chiddu ca nun c’haiu
quannu u ventu cala supra a chiazza
cu li mani azzannate e lu visu stancu
arrubavu
{ ciuri pittati }
pi nun moriri foddi
accussì comu na mennula cunsata
e m’addummisciu suttau chiantu
‘n mezzu a chista grasta spizzuliata
***
{ ‘u carrettu }
‘cchista manu
è surgenti spiranzusa
‘ncapua sta nuttata talia
a l’una nica
acchianatu ri lu mari
stu chiantu – silenziusu
quartara arrucia
i trinta denari
sciddica u baruni
e lerciu sciuscia
‘nfamia
e lu sangu – arrubatu
vucìa
{ ‘u carrettu }
sinza latti
- addisiannu lu riscattu -