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Aprèslude

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Domenica 11 novembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (438): Un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio

Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, andartene non puoi
quando è mancata all’ora la sua luce.

Durare, aspettare, ora giù a fondo,
ora sommerso, ed ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:

la natura vuol fare le sue ciliegie
anche con pochi bocci in aprile - 
le sue merci di frutta le conserva
tacitamente fino agli anni buoni.

Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèlude.

GOTTFRIED BENN

L’insostenibile leggerezza dei nostri amori si scontra ad ogni piè sospinto con la pesantezza delle cose. Noi vorremmo non tanto un idillio senza fine, quanto un respiro, più spazio, un’udienza maggiore, risposte pronte, disponibilità di tempo, ma ci scontriamo con la ‘pienezza’ della realtà: la realtà dell’altro è piena, perché si svolge nel tempo; è scandita da interessi, impegni, obblighi di ogni genere. E questo non ci piace. Sembra una congiura che l’altro trama ai nostri danni, per farci soffrire.
Non siamo capricciosi. Non pretendiamo che non vada a lavorare, ma ci farebbe piacere che almeno una volta lo facesse. E solo per noi. Per stare accanto alla nostra malinconia. Per farla diradare.
Insomma, non vorremmo urtare contro i nostri muri: sappiamo che sono solo i nostri muri quelli che si ergono davanti a noi, ma concedeteci che alcuni muri siano riguardati come muri, altrimenti tutta la realtà si risolverebbe in favola e nulla sarebbe più certo!
Lo abbiamo ammesso per primi: la leggerezza dei nostri amori è insostenibile! Da una parte sembra che ci sia una libertà senza limiti, cioè una disponibilità assoluta; dall’altra, una rigida acquiescenza a tutte le richieste del reale, senza concessione alcuna al libero gioco del desiderio! Di quest’ultimo abbia seguito nel tempo i numerosi slittamenti, tanto che ci convince la sentenza di Hofmannsthal che abbiamo vagheggiato da lontano: 

Maturità è distinguere sempre più nettamente e legare sempre più profondamente.

Non ci spaventa più la distanza che il tempo mette in mezzo, provvedendo a far risaltare di ognuno l’identità compiuta, con la forza del carattere. Non solo file di continuità intervengono a garantire la solidità della relazione sentimentale. La maturità degli affetti ci consente di osservare l’altro che si allontana senza provare più quel senso di abbandono che provavamo un tempo. Oggi sappiamo bene che tornerà. Abbiamo imparato a ricordare il bene ricevuto, per questo non smettiamo mai di sperare che l’altro torni sempre a procurare il nostro bene.

Un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio.

Come non considerare ancora la condizione di chi non scelse la propria solitudine e non smise mai di chiedere, di aspettare, di illudersi ancora? I giorni dell’obbrobrio sono tutti di chi è solo e non potrà certo ricavare motivo di gioia dall’esser solo. L’esercizio più duro è condensato nella prescrizione del poeta, che non esita a raccomandare di concedersi, di oscurarsi, di riconoscere che è giunto il tempo residuale di un’ora che non è più ‘ora’, perché non c’è più l’incanto della luce di una volta. Eppure, ci sono ancora i giorni che sono gioia e i giorni che sono solo obbrobrio, tetra nostalgia e barbara malinconia.
Tra la solitudine a cui tutti siamo votati, che accompagna ogni processo di maturazione personale, e la solitudine di chi patisce l’angustia della mente dell’altro, l’apatia dei sensi, non disgiunta da aridità di cuore, è facile comprendere quanto quest’ultima forma di solitudine renda più arduo l’aprèslude.
C’è pomeriggio e pomeriggio. Ci spaventa il crepuscolo della sera tutte le volte che ci ricorda la felicità perduta. A che vale la nostalgia della bellezza, se non ci è più concesso di tendere la mano a stringere ancora la mano di chi aveva promesso lungo amore e oggi tace, dimentico di sé e delle più dolci promesse di un tempo? E’ sera.

Boris Blacher: Aprèslude op.57 (1958): quattro lieder per voce e pianoforte su testi di Gottfried Benn


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