Cesare Cuppone: Gallipoli (2012) – olio su tela 50 x 70
“Arabeschi di un sogno“ di Giorgio Barba è un poemetto che fa pensare ai silenziosi tramonti che avvengono nei sobborghi ultimi, nelle città estreme, città bellissime e da sempre sconfitte da una guerra di cielo e di albe che vengono dal profondo tempo dello spazio, albe di una luce incredibile e definitiva, albe iniziali e nuziali che generano quell’incredibile luce che è solo salentina, e poi riviere di sabbia e scogli che s’aprono basse e tenere, quasi rarefatte, come certe marine del tugliese Cosimo Sponziello, così fragili e luminescenti, immerse in uno specchio d’acqua che è una profusione di lapislazzuli e talora se ne può vedere il fondo, come nei quadri di silenzio blu del leccese Francesco Rocco: è il mare di Gallipoli, quel mare che corteggia ancora le case e le chiese bianche che grondano salnitro, le lune nuove e l’eco musicale di divinità tranquille, sirene che volteggiano negli anfratti di Sant’Andrea o addirittura nei pressi dello scoglio del Campo, come in una piscina; sirene domestiche, che non tolgono più la vista a nessuno, nereidi che vanno in barca nude (le vele issate a bordo sono null’altro che le loro clamidi messe ad asciugare). E poi silenzi. Silenzi filosofici e labirintici dei greci, acrostici bizantini, chiavi segrete, ardue geometrie, i misteri della volta e dell’algebra degli arabi, le lunghe sciabole con l’elsa d’avorio degli spagnoli dai vasti cappelli e dai grandi inchini barocchi, con nomi e prenomi innumerevoli e un poco comici o ridicoli.
Voler descrivere Gallipoli è un po’ tutto questo e un po’ voler danzare sull’ acque, imitare i dervisci turchi rotanti, che fanno il “Sema”, il movimento universale che è danza e preghiera e vanno in estasi, diventano senza peso, oppure provare a volare come Icaro per vedere da lassù l’effetto che fa. Gallipoli è come un tango litigioso, un carnevale infinito fatto di vento perle e stracci colorati che volano, un popolo che è in costante festa con sé stesso , il tempo e la storia e, che fa continue battaglie d’aria e di nulla, un popolo che ama giochi di memorie di echi e di spade, di palline d’oro e biglietti in bottiglia, e le uniche cose serie le hanno sempre fatte le donne prima con l’olio bollente versato sugli assalitori veneziani, poi con la rivoluzione femminile ante litteram … Gallipoli città indomabile e ingovernabile città dicotomica, città degli opposti, dove tutto è possibile e anche il contrario di tutto.
Ma Giorgio Barba, gallipolino con radici di popolo e una laurea in lettere moderne col massimo dei voti, professore di valore, insegnante creativo e appassionato, uno che crede in quel che fa, nonostante il vuoto e lo scetticismo che lo circonda, vuole dimostrare che Gallipoli è altro, è teorema d’ombre e luci d’angeli prismatici e trasmigrazioni dolorose, è una città – Stato sorretta da dodici colonne profondamente infisse nel mare da un dio nostalgico e solitario, è uno straripante tramonto di cieli appassionati, qualcosa che non è mai stato e deve venire, qualcosa da sognare in un lungo sogno crepuscolare, la sua città è, in definitiva, un incanto di arabeschi, un luogo che si fa musica, diventa melodia di vento e frammenti di cristalli, labirinto con l’intersecarsi delle stradine battute dai raggi di una luna traversa, con losanghe colorate delle finestre: gialle rosse e verdi, un luogo che attraversa epoche ricordi e stupori di gente da sempre in attesa del nulla, con i deliri stellari di certe notti chiarissime in cui si vede come se fosse pieno giorno, un giorno fatto di luce azzurrissima, che si spande all’infinito. Un posto dove tutto è mitologia e tutto è poesia: le rocce, i volti di rame dei vecchi pescatori scolpiti dal tempo e rosi dal vento e dalla salsedine, gli stati di felicità e di dolore, e certi angoli pieni di maschere grottesche e certi luoghi misteriosi che sembra vogliono dirci qualcosa di non scritto, come una disvelazione o rivelazione che avremmo dovuto conoscere tanto tempo fa …
Giorgio Barba esplora tutto ciò, con quell’inesauribile bisogno di poesia, con la bisaccia piena di metafore e scrive la sua storia di Gallipoli che è la storia universale di tutte le città del mondo, la storia della sua vita, del bambino che se ne andava a giocare nel porto dietro i pesci, il carparo e i sogni, e dalla riviera di scirocco scrutava la sua Kalè Polis: “Sirena del mare / dall’onda cullata / dal vento amata / dal cielo rapita / ti specchi e ti scruti/ ti guardi e ti miri / in piani specchi d’acque / bagnate di sole. Si frange sulle tue mure / la violenza dei flutti / mentre s’alzano nell’aria / segnali delle torri di fumo/ sparse lungo archi d’azzurro”. Inconsapevole, non sapeva che quegli occhi pieni di stupore e quei pensieri colorati erano la sua poesia e faceva versi di memoria già allora davanti al mare tenero e poderoso, trasparente e misterioso, al mare mitico di sale greco, che lo vide crescere rapidamente, liceale zelante e brillantissimo, poi giovanetto universitario, che veniva a trovarmi in via Gian Giacomo Russo e non mancava mai alle riunioni de “L’Uomo e il Mare”, con accanto la sua Musa vivente, la dolce Anna Maria, oggi sua moglie e madre dei suoi figli.
Parmenide, Empdocle, Omero e Virgilio e gli altri latini, poi Leopardi, Baudelaire, Valery, Pascoli, Saba e Ungaretti … e forse da ultimo un poco di Comi, Bodini, Pagano (chissà!). Giorgio Barba si è nutrito di classici che ha ridisegnato con la sua vena barocca che fa parte del suo DNA, ed eccolo tessere pazientemente, Ulisse in pantofole, la tela arabescata di un sogno, che è un sogno del pescatore senza Dio, anche se vorrebbe che ci fosse e anzi talora lo bestemmia apposta con la speranza che ci sia e che si è allontanato solo temporaneamente: “Ma quale preghiere può dire / al Dio che non sa?. In silenzio in giù inarca / le ciglie e prega la sua rete / che cuce, che si scuce, che ricuce. / Pensa a notti di luna / quando il mare è dio l’estate / e l’uomo un eroe di miti greci”.
E’ una sinfonia di barocco gallipolino, una frottola, una pastorale, una di quelle nenie che sembra l’abbia scritta il popolo, tutti insieme, sull’immensa tastiera del vento, un sogno di purezza, quello di Barba e un verso semplice, piano, rispettoso della nostra lingua nonostante le mode trasgressive – dirà Florio Santini - ma anche un uomo dai “dubbi tortuosi/ come angioli androgini/ (che) martirizzano l’anima”, che non vuole venire mai meno ai richiami della coscienza e alla fede per cui si è nati, e ribadisce che essere poeta è una dimensione dello spirito, non si sceglie, né si viene scelti in questo tipo di capacità immedesimativa, dove tutto è simbolismo d’antichi paradossali bestiari, vita e morte, la dialettica degli opposti, l’allegoria, le allusioni ironiche, i sogni, gli arabeschi di un sogno. Uomo dolce e timido triste come uno strano Leopardi del duemila, capace di riconoscere in un temporale o una foglia che cade nell’attesa sul ciglio di una rupe oppure in un barlume di fumo che pigro precipita nell’incubo dei vicoli o in una farfalla di vetro colorato, Giorgio Barba è un uomo che grida il suo tempo e cerca un guizzo di stella e di carne nella parola che ammalia. Un miniatore di realtà inferiori, minime l’erba, o la pica, le castagne, demoni e angeli delle chiese barocche.
Una sorta di sintesi fra poesia colta e popolare. La sua forse più che un’aspirazione letteraria, è una necessità vitale di superare un dualismo che si porta dietro, una dicotomia che fa parte della sua vita: il professore piccolo borghese preparato, colto, brillante, l’operatore culturale impegnato, il giornalista da ex terza pagina introverso e sempre un po’ scontento dentro l’anima popolare esplodente del pescatore gallipolino pieno di impulsi vitali, passionale, anarchico, prodigioso, incessante rematore dell’essere, felice e commosso di esistere e grato del dono dell’esistenza, con le sue dualità e ambiguità: “… e l’ombra della notte/ è la notte dell’ombra/ la luce delle stelle / le stelle della luce/ il suono del mare/ il mare del suono/ e la luna compassione/ non ha ma bianca / pallida assorta/ contempla e non soffre/ al canto di dolore/ al pianto d’amore”.
Il poemetto nasce forse da un’abile quanto sofferta e faticosa ricucitura di frammenti lirici, pensieri e sentimenti vissuti e sentiti in tempi ed epoche diverse, che si sono sedimentati e maturati a forza di limature e d’aggiustamenti pazienti e meticolosi, costituendo un corpo organico in cui si fondano pensiero filosofico e sentimento. Ma forse neanche questo è giusto dire, perché tutto è frammento di stelle, soprattutto quando si parla di poesia, frammento colorato, sospeso, metafisico: “affacciate sui balconi / a gustare aurore tramonti/ notturne follie e serenata/ ai moreschi balconi/ incarnati nella pietra visi/ orrendi con bocche spalancate e occhi di fuoco … la sofferenza il dubbio/ l’ansia di sapere/ l’assenza di un Dio./ … ma dentro nell’intimo della pietra/ anche loro hanno un’anima/ come le donne di quest’isola/ di questi balconi di queste case”.
Emblematico viaggio nel crepuscolo di Gallipoli, attraverso un mondo di specchi, dove si affastellano memorie, sogni, versi, ombre e luci che non ricordi più, strade vietate ai tuoi passi, porte chiuse sino alla fine del mondo, e libri, tanti libri ,una cattedrale di libri, un’immensa biblioteca che forse non aprirà più. C’è artificio e ingegno, parole suoni voci, è un crepuscolo in cui l’anima ritesse itinerari che forse non esistono più, con incorrotta passione, un itinerario che è etico oltreché poetico. Tre voci, tre scansioni, tre momenti diversi accompagnano questo viaggio nel labirinto del sogno: una voce musicale accompagna i suoni e le armonie della fanciullezza scandendo i ritmi e le straordinarie leggerezze dell’età, si realizza quella straordinaria leggerezza dell’essere, ossia la reazione alla materia del peso di vivere, che assume il valore della fantasia e del sogno. Eccola questa voce di stupefazione, di curiosità e di mistero, la voce dell’infanzia che si fa eco di nostalgia, risonanza, malinconia, dimensione panica, momenti che non torneranno più come “il vagare fanciullo/ tra le vie le piazze e le chiese;/ quel mio rifugiarmi sul tuo seno / e il rapido volgere del tempo/ In quelle strade tortuose / cadente, bambino/ m’aggiro sonnambulo/ attento nell’istinto”. La seconda voce è quella dell’antitesi sogno-realtà, tra passato e presente, una voce conflittuale, piena di contrapposizione: silenziosa e dilacerante, inquieta e trasognata, aspra e dolcissima, rabbiosa e tenera, ma più spesso delusa e dolente (il mondo umano è da sempre una barca di esiliati e una nave delle follia) come sempre avviene quando si scontrano l’idea e la materia. La terza voce è quella dell’uomo che, cresciuto di fronte alla proprie responsabilità nei confronti di una umanità sofferente e della storia, ha dovuto aprire gli occhi per vedere “rapidi arrivi/ di vele nere”, per acquisire coscienza del sentimento del tempo “che batte i rintocchi / del vecchio pendolo / e corre come un treno senza ritorno / e della gente – di tutta quella schiera di eroi umili – che fatica la propria esistenza giorno dopo giorno – un fluire e rifluire / di gente tra gocce di luce” .
Il poemetto finisce con la prima voce, quella del sogno, e si conclude con un desiderio panteistico che è anche il messaggio estremo d’amore, un voto augurale per Gallipoli sirena del mare: “E mi risveglia d’un tatto/ l’azzurro nuovo del cielo/ L’aurora arruffa appena / i suoi riccioli rosa / specchiandosi nelle distese/ vellutate del mare/ E allora m’inazzurro nel cielo – / per non dimenticare – / m’inanello nelle rare nubi/ mi disgrego in atomi nel mare/ al canto di una sirena della tua sirena , Gallipoli, / sirena del mare, isola serena”.
Se è vera la teoria che ci ha lasciato il buon Sinesio da Cirene (anche noi siamo figli spirituali del più puro oriente) secondo la quale i sogni predicono il futuro ed in essi (anche nelle loro oscurità risiede il vero), lasciamo che il nostro valente poeta continui a sognare e ci dia altre prove, in un prossimo futuro, del suo talento di sognatore.