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L’arboricoltura del mondo antico comprendeva in primo luogo olivicoltura e viticoltura, e quindi la coltura degli alberi da frutto; questi ultimi spesso non richiedevano cure particolari, ma potevano allignavare e fruttificare spontaneamente.
Olivi- e viticoltura erano accomunate dalla comune esigenza di terreni asciutti, anche sassosi e montuosi, fino ai limiti d’altitudine delle colture (6-800 m per l’olivo, 800- 1000 m per la vite), e all’interno dei confini climatici, anch’essi approssimativamente coincidenti, almeno in area mediterranea. Una sistemazione particolare per gli olivi (ma anche per le viti), che consentiva di sfruttare terreni in pendio erto, era la creazione di terrazzamenti, di cui esistono significative tracce archeologiche; essi offrivano anche il vantaggio di evitare l’erosione dei pendii, e vi potevano venir praticate anche colture subarboree.
Davanti ad una fruttificazione relativamente rapida (2-3 anni dall’impianto) per la vite, l’olivo richiedeva invece almeno 15 anni per iniziare la produzione. La pianta dell’olivo raggiunge la piena capacità produttiva solo intorno ai 40 anni dall’impianto.
L’olivo era dunque per eccellenza l’albero che veniva piantato a beneficio delle generazioni a venire (ed era certo all’olivo che si riferiva Virgilio dicendo dell’agricoltore, serit arbores, quae alteri saeculo prosint). Per di più, l’olivo fruttifica in genere ad anni alterni, il che significa che solo la metà dei terreni a oliveto era ogni anno produttiva (una specie di “maggese naturale”!). La coltura dell’olivo, come le tecniche di oleificazione, fu importata a Roma dalla Grecia, attraverso la mediazione delle colonie della Magna Grecia. In Italia erano diffuse specie di olivi selvatici (oleastri), cui vennero applicate le pratiche di innesto per renderli fruttiferi.
Mentre l’olivicoltura non richiedeva un grande investimento lavorativo (era sufficiente provvedere periodicamente alla potatura), ben più impegnativa era la cura della vite, che a diversità dall’olivo fruttifica annualmente. Così come più complesse e impegnative erano le pratiche di “estrazione” del vino dall’uva che non dell’olio dalle olive. Inoltre, il vino, una volta maturato, era soggetto a facile decadimento acetico, se non attentamente preservato, mentre l’olio non era soggetto se non ad una lenta degradazione nel corso di due-tre anni, entro i quali poteva comunque essere consumato senza inconvenienti.
Sia la viticoltura che l’olivicoltura, là dove si trattasse di proprietà di una certa dimensione, operavano, in Grecia come in Italia, non solo ai fini dell’autoconsumo, ma altresì del commercio e dell’esportazione (anche su lunghe distanze). L’olivicoltura poteva essere la coltura più conveniente, o anche la sola praticabile, in certi poderi, e comunque il fabbisogno d’olio per il produttore stesso era limitato. A parte le grandi aziende, in certi casi anche aziende di minori dimensioni potevano produrre essenzialmente per il mercato (ciò vale anche per la viticoltura, sia in Grecia che in Italia).
Le piante da frutto utilizzate nell’antichità coincidevano in larga parte con quelle attuali, con l’avvertenza che per ragioni climatiche e irrigue l’Italia era assai più ricca in alberi da frutta della Grecia (dove abbondavano soprattutto i fichi). Mele, pere, uva, prugne, cotogne, melograni, sorbe, carrube, e più tardi anche pesche, ciliegie, albicocche, cedri, costituivano le disponibilità in frutta fresca, mentre le frutta secche predominanti erano mandorle e noci.
A parte il consumo fresco, molte varietà potevano venir seccate per l’inverno, come pere, mele, prugne, carrube. Importanza particolare rivestiva, specie in Grecia, il consumo di fichi, freschi ma soprattutto seccati o tostati, di alto valore calorico. A Roma i fichi secchi venivano anzi consumati non come frutta, ma come companatico.
La pianta di fico allignava spontanea, e non richiedeva cure particolari, anche se in certe aree (Cnosso, Pilo in età micenea, Palestina e Siria) vi erano vere e proprie piantagioni di fichi (come oggi in Anatolia), anche in colture associate alla vite. Al di fuori delle specie coltivate, un ricco apporto alimentare arrecava, specie in Italia, lo sfruttamento di varietà selvatiche, quali in primo luogo il castagno (zone collinari e montuose dell’Italia centro-settentrionale); e come la quercia, le cui ghiande non servivano solo al pascolo brado dei suini, ma anche, in caso di necessità o di povertà estrema, come nutrimento umano, tostate e ridotte in farina per farne “pane” e farinate.
Oddone Longo, 9 ottobre 2003 - In occasione del 250° Anniversario dei Georgofili
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