di Pierluigi Montalbano
Alimentazione, ambiente ed economia sono temi interconnessi attraverso i quali si deduce il modo di vivere di una popolazione. Gli archeologi studiano gli alimenti consumati dai nuragici grazie alle nuove tecniche di analisi chimica e fisica. Dal VI Millennio in poi, in Sardegna, l’uomo da predatore diventa produttore e deve organizzare le attività dotandosi di strutture economiche.
La produzione dei beni di sussistenza si impatta sull’ambiente e le attività lasciano tracce, a volte pesanti, sull’ambiente circostante. E’ doveroso, per attuare una ricerca valida, approfondire una serie di studi che riguardano le relazioni fra alimentazione, economia e ambiente.
L’alimentazione è un elemento culturale complesso, infatti ancora oggi c’è il pranzo quotidiano che riunisce la famiglia, o il pranzo di rappresentanza dove si mostra qualcosa di sé all’ospite, e il pranzo diventa un momento fondamentale di convivialità.
Negli anni Ottanta, l’americano Gary Webster ha scavato a Borore, nel nuraghe Duos Nuraghes. Fra le nuove tecniche utilizzate, c’è la flottazione, ossia setacciare la terra con l’ausilio dell’acqua. Con questa tecnica i materiali pesanti si depositano sul fondo dei secchi, mentre sulla superficie rimangono quelli più leggeri, prevalentemente frammentini di carbone o resti carpologici, cioè semini o frutti carbonizzati, con i quali gli specialisti riescono a determinare la specie vegetale coltivata all’epoca. Al Duos Nuraghes si sono trovati semi di grano tenero e grano duro. Nell’isola, già dall’inizio del Neolitico, la coltivazione dei cereali (farricello e farro) testimonia la conoscenza di piante addomesticate, indelebile prova di frequentazione dell’isola da parte di gruppi umani provenienti dal Vicino Oriente, laddove l’agricoltura aveva ormai sviluppato tecniche evolute (la Mezzaluna fertile è il luogo più probabile).
Il grrano trovato a Duos Nuraghes è databile all’inizio del XIV a.C. nel periodo di pieno sviluppo della civiltà nuragica. Sul margine della Giara di Siddi ci sono 16 nuraghi, e al centro troviamo una grande tomba di giganti. In questi nuraghi si stanno eseguendo dei sondaggi di piccole aree di circa 20 mq, per recuperare le stratigrafie ed eseguire la flottazione e le analisi dei pollini, per capire come era l’ambiente della giara in quei tempi. Fra i primi risultati ottenuti, si è scoperto che dentro il nuraghe, a due metri di profondità, nel materiale bruciato intorno a un focolare, sono stati trovati dei semini di grano tenero. Questi elementi vegetali erano in associazione con ceramiche del XIV a.C., quindi siamo certi della datazione del contesto.
Nel villaggio attorno al nuraghe Genna Maria di Villanovaforru, sul fondo dei dolii fracassati visibili al museo, cronologicamente attestati nel X a.C., sono stati trovati resti di migliaia di semini carbonizzati di grano tenero, duro e orzo, oltre il farro. Nel vano 12 c’erano frammenti di pane azzimo. Si distinguono la crosta, la mollica e le bollicine del gas, piccole e regolari, della fermentazione dovuta alla cottura.
I cereali sono derrate solide a lunga conservazione, quindi l’uomo deve, oltre a produrli, conservarli perché la produzione deve durare tutto l’anno ed è necessario avere semi aggiuntivi da piantare per la successiva stagione produttiva. Ne consegue che occorrono dei luoghi e degli oggetti dove conservare questi materiali. All’epoca l’indice di produttività era 1:6, ossia si ottenevano 6 semi da ogni seme piantato.
Nel nuraghe Arrubiu di Orroli abbiamo due modalità di conservazione del grano: per la comunità e per la riserva familiare. La comunità conservava tutto in un silos all’interno del quale non c’erano ceramiche, ne ossa di animali, ne resti vegetali carbonizzati. C’è da considerare che il nuraghe è in basalto, e questo materiale ha una reazione acida con le piogge e tende a non conservare i residui organici. Il calcolo statistico rivela che il silos poteva alimentare per un anno circa 70/100 persone. Vista la presenza di un altro silos, si deduce che la popolazione di quella comunità era numerosa.
Nei nuraghi abbiamo anche la presenza di legumi (favini e piselli) e di lenticchie. Per quanto riguarda l’ulivo, sappiamo che in Sardegna, nella zona di Luras, esistono ulivi che risalgono al 2000 a.C. Le analisi del DNA dell’olivo hanno mostrato che l’olivo coltivato nel vicino oriente è diverso dall’ulivo selvatico mediterraneo. Da quest’ultimo, con l’addomesticazione, si arriva all’ulivo coltivato che conosciamo, pertanto oggi siamo certi che l’ulivo sardo non proviene dal vicino oriente. In uno strato del XV a.C. del Duos Nuraghes di Borore sono stati trovati alcuni semini carbonizzati di ulivo mediterraneo. Negli anni Ottanta, nello scavo di un sito del V Millennio a.C., a Saint Florence nell’alta Corsica, hanno trovato le tracce dei tessuti vegetali dei fiscoli, ossia quegli elementi in tessuto vegetale che servono per ricavare l’olio dalla spremitura delle olive. I semini carbonizzati erano di olivastro, e non di olivo coltivato, ma stiamo parlando di 2500 anni prima dei nuraghe. Questo suggerisce che in Sardegna conoscevano pressappoco le stesse tecniche mesopotamiche e ottenevano gli stessi risultati.
Sulla base di documenti che ci arrivano dall’analisi chimica delle argille dei vasi trovati in Sardegna, ad esempio quello miceneo di Orroli, dipinto e fatto al tornio, si è risaliti alla provenienza, e si è scoperto che la sua origine è in Argolide, nel nord del Peloponneso. Questo tipo di vaso, denominato alabastron, è un contenitore di unguenti a base di olio che circolava in tutto il Mediterraneo. Un altro vaso, un grosso dolio, ritrovato nel nuraghe Antigori di Sarroch, è identico a quelli utilizzati a Creta come contenitori di olio.
Un’altra coltivazione specializzata è quella della vite. In Sardegna sono state calcolate circa 250 specie di vite selvatica. La differenza con quella domestica è che la selvatica presenta piante maschili e femminili. Solo il 3% delle specie selvatiche presenta sia i fiori maschili sia quelli femminili, per cui s’impollina da sola. L’uomo, come per il grano e altre piante, ha selezionato quel 3% e ha trasformato la vite selvatica in vite coltivata. Il vino più antico lo abbiamo nel vicino oriente, sui monti Zagros iraniani, dove hanno trovato dei piccoli dolii e, in base alle analisi chimiche effettuate, si è scoperto che contenevano vino. Un frammento includeva ancora, a distanza di 6000 anni, tracce giallastre di resina di pistacchio e acido tartarico, il primo componente del vino. Il pistacchio è importante perché ha una reazione chimica che uccide l’aceto bacter, il batterio che trasforma il vino in aceto. A Duos Nuraghes sono stati rinvenuti semini carbonizzati di vinacciuoli negli strati del XIV a.C. Le analisi hanno rivelato che le specie di Duos Nuraghes non sono selvatiche, ma in fase avanzata di domesticazione, quindi il XIV a.C. è un momento nel quale l’uomo sta intervenendo sul vitigno selvatico per ottenerne la specie coltivata.
Insieme ai semini carbonizzati di vite coltivata è frequente trovare semini di fico, utilizzato per aumentare la gradazione zuccherina del vino. Abbiamo quindi un dato importante: i vitigni sardi precedono di almeno 3 secoli l’arrivo dei fenici in Sardegna.
L’uomo nuragico si alimenta quindi di cereali, legumi, coltivazioni specializzate e trasforma l’ambiente. Le analisi dei campioni di terra al microscopio dimostrano che i pollini resistono per millenni, e si può riconoscere la specie arborea alla quale appartengono.
Gli studiosi hanno fatto dei prelievi nel vespaio dell’Arrubiu di Orroli, nello strato del XIV a.C. quando si spianò il terreno per costruire il nuraghe, e si è scoperto che l’80% dei pollini sono di specie arboree, ossia alberi e bosco. In particolare si trattava di querce caducifoglie (roverella) e perennifoglie (leccio), frassino, ontano, olmo e ginepro. Il 13 % erano pollini di specie erbacee, importanti perché stabiliscono l’impatto dell’uomo sull’ambiente e aiutano a stabilire il clima dell’epoca. In base ai risultati si rileva che era temperato, come accade anche in altre zone del Mediterraneo. Nello strato successivo, quello del XIII a.C., il bosco si riduce al 40 %, aumenta il cisto, sintomo di degrado del bosco, e aumentano le specie erbacee legate in particolare alle coltivazioni (nitrofite). Si tratta di specie parassite come la cicoria, il papavero, l’ortica e altre, che crescono intorno agli spazi creati dall’uomo. Ci sono anche microfossili pollinici, riconoscibili al microscopio come spore, ossia funghi, in particolare coprofiti, che nascono nel letame animale, e indicano il terreno dedicato al pascolo. Assistiamo dunque a un bosco che nel XIII a.C. diventa aperto. Probabilmente i nuragici hanno iniziato a sfruttare intensamente il legname per realizzare imbarcazioni e far fronte alla richiesta sempre maggiore di strumenti in bronzo, la lega di rame e stagno che costituiva la risorsa più ricercata nel corso del II Millennio a.C. Ottennero radure per coltivare cereali e allevare il bestiame e, allo stesso tempo, tutto il materiale necessario per attivare officine fusorie e istituire cantieri navali.
Nel XII a.C., l’ultima fase della stratigrafia analizzata, il bosco si riduce al 20 %. La quercia scompare quasi totalmente. Si salva solo il bosco ripario, cioè quello che cresce vicino al fiume. Aumenta notevolmente la quantità di pollini di cereali e di funghi coprofiti legati alla presenza di letame animale. Inizia ad apparire il glomus fasciculatum, un fungo che cresce in situazioni di grave degrado dei suoli, quando sono erosi o troppo sfruttati.. Da questa analisi si può ipotizzare una situazione che vede l’uomo che trova il bosco, lo taglia e lo sfrutta senza preoccuparsi più di tanto del degrado dell’ambiente.
Per quanto riguarda l’allevamento, gli zooarcheologi hanno recuperato nelle stratigrafie i resti di pasto, con informazioni sulla specie, l’età di abbattimento, le tecniche di macellazione e il sesso. Il materiale osseo recuperato è limitato a causa della consunzione causata dalla reazione acida del basalto. Questi pochi resti mostrano l’allevamento delle tre specie principali del Mediterraneo: ovi-caprini, suini e bovini. La produzione prevalente era quella degli agnelli da latte, per la carne. La macellazione in età giovane degli agnelli, permette alla madre di liberarsi dall’allattamento e produrre più latte per il consumo della comunità. A Lunamatrona, intorno al XIV a.C., la situazione cambia, e le analisi sui resti delle ossa mostrano una prevalenza di suini e, in misura minore, gli ovi-caprini. Influisce senz’altro il fatto che siamo in pianura e l’ambiente intorno a questo nuraghe era diverso rispetto a quello delle giare, generalmente localizzate oltre i 500 metri di altitudine. Si nota la completa assenza di ossa di cervo, evidentemente non c’erano boschi e questo ambiente non poteva sopportare la presenza di grossi erbivori.
I dati sulla macellazione dei suini hanno mostrato un risultato importante: l’età di abbattimento era entro i sei mesi, quindi i maialetti erano apprezzati anche allora.
Al nuraghe Arrubiu il numero degli ovi-caprini è decisamente superiore a quello dei bovini, ma bisogna tener presente che il valore economico della carne di pecora, rispetto alla carne di un bovino è molto inferiore, quindi la proporzione è giustificata. Lo scambio di un bovino richiedeva 2 maiali e mezzo o 5 pecore. Se facciamo un confronto prendendo in considerazione i pollini esaminati a Orroli, notiamo subito che la presenza dei grossi mammiferi e della caccia è normale in una zona boscosa come quella dell’Arrubiu del XIV a.C., e i pollini delle specie arboree erano intorno al 80%. Il secolo seguente diminuiscono i bovini, a causa del rarefarsi della superficie boscosa, tagliata e sfruttata dai nuragici, e aumentano considerevolmente i suini e gli ovi-caprini. Nel XII a.C. scompaiono le ossa di cervo, i bovini sono pochissimi e la caccia si orienta verso il prolagus, il riccio, la volpe e i volatili. L’ambiente era degradato e l’uomo si adattò all’ambiente del periodo inserendo gli ovi-caprini.
Arrivando al periodo X-IX a.C. possiamo esaminare la situazione del Genna Maria di Villanovaforru. Dopo due secoli riappaiono i bovini, come accade anche a Sant’Anastasia di Sardara e all’Arrubiu di Orroli. Il clima e l’ambiente migliorano. Abbiamo una fase di transizione fra la fase climatica sub boreale temperata, e la fase sub Atlantica, più fredda e piovosa, nella quale viviamo ancora oggi. La vegetazione spontanea cresce meglio ed è abbondante, i suoli si sono rigenerati, e questi dati sono verificabili in tutto il Mediterraneo fin dentro il medioevo. In epoca romana si distrusse tutto per creare i latifondi per la produzione cerealicola, ma nel medioevo questa produzione cessò e il bosco riprese gli spazi che gli erano stati tolti.
Nel cortile del nuraghe Arrubiu, nello strato del XII a.C. sono stati trovati un bacile, il pozzo, un focolare e un bancone con un sedile. In questo strato sono state trovate anche varie ceramiche, una brocchetta, un alare, ossia un sostegno per spiedo, e altri elementi che suggeriscono un utilizzo come luogo deputato ai banchetti, a base di carne arrosto. La zooarcheologa che ha indagato il sito ha trovato tracce di bruciatura, sui resti di pasto, ben 4 volte superiori rispetto alle fasi precedenti. Nel nuraghe Arrubiu gli archeologi hanno trovato anche resti di fauna ittica come mitili, cozze, ostriche e altri cibi.
Nelle immagini: Il Nuraghe Mannu di Dorgali, struttura, ingresso orientato a est e vista sul Golfo di Orosei.