Magazine Informazione regionale
di Paola Mancini
La Gallura è quella regione che occupa la parte settentrionale della Sardegna ed è, attualmente, inserita nella Provincia Olbia Tempio, della quale, a dire il vero, fanno parte anche alcuni comuni che non sono, almeno dal punto di vista culturale, ritenuti galluresi come Oschiri e Berchidda, Alà dei Sardi e Buddusò.
La provincia Olbia Tempio comprende 26 comuni, dalle isole dell’Arcipelago di La Maddalena, a nord, fino a Buddusò, a sud. Il lavoro, oggetto del volume Gallura Orientale, si è concentrato negli undici comuni che componevano la Comunità Montana Riviera di Gallura (Arzachena, Golfo Aranci, La Maddalena, Loiri Porto San Paolo, Monti, Olbia, Padru, Palau, Sant’Antonio di Gallura, Santa Teresa Gallura, Telti). Proprio quest’ente, infatti, prima della sua soppressione nel 2005, mi ha affidato il censimento dei beni archeologici preistorici e protostorici ricadenti nei suoi territori, passando poi il testimone al comune di Monti che mi ha supportato nelle fasi dell’indagine e nella successiva pubblicazione dei dati emersi.
I monumenti sono stati da me individuati puntualmente con un GPS e riportati sulla cartografia, elaborata in ambiente GIS con la collaborazione di Claudio Caria. L’utilizzo del GIS mi ha permesso di essere maggiormente precisa nella localizzazione dei beni e di analizzare meglio la relazione tra
i monumenti e il contesto in cui si trovano. Senza alcuna polemica, ma con il dovuto spirito critico, voglio però, sottolineare, che il GIS, oggi molto usato e spesso abusato, non deve essere svilito a mera e accattivante immagine spesso priva di contenuti, ma considerato uno strumento da ancorare a solide basi scientifiche, all’analisi territoriale compiuta preliminarmente sul campo e successivamente all’interpretazione dei dati, fine ultimo di ogni ricerca. Il volume, edito dalla casa editrice Taphros di Dario Maiore, è arricchito da contributi di altri specialisti: il geologo Giovanni Tilocca, il collega Giuseppe Pisanu e i funzionari della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro, responsabili di zona per l’ente nei territori di cui mi sono occupata: Angela Antona, Rubens D’Oriano e Antonio Sanciu.
Le ricognizioni mi hanno permesso di sfatare alcuni preconcetti che descrivono la Gallura come un microcosmo, una regione diversa dal resto della Sardegna e di capire che si tratta semplicemente di una parte dell’Isola, con le sue ovvie peculiarità culturali, dovute però, in gran parte, alla sua posizione geografica e alle sue caratteristiche ambientali. Quando si parla di Gallura nella mente dei più subito compaiono immagini di spiagge aggredite da folle di turisti e di lussuose ville a pochi metri dalla battigia, mentre per quei galluresi nostalgici, legati, forse in modo anacronistico, alla loro identità, è l’entroterra con gli stazzi, le unità territoriali con le tipiche costruzioni che dal Settecento alla prima metà del Novecento hanno costituito la struttura abitativa e lavorativa dei loro padri. In realtà la Gallura, così come il resto della Sardegna, è una felice commistione di mare e terra, in cui spesso le due realtà si fondono in maniera indissolubile. Questa fusione fra la natura, spesso aspra e inospitale, dell’entroterra e il mare, caratteristica di tutta la Sardegna, è esemplificata molto bene dall’isola di Tavolara; molto fragile perché calcarea ma stabilmente ancorata a un basamento solido in granito, si erge solitaria, per lo più aspra e, apparentemente, poco ospitale, in mezzo al mare ma vicinissima alla terraferma. Proprio qui sono state rinvenute testimonianze significative della frequentazione dell’uomo dalle prime fasi della preistoria.
Com’è noto i primi uomini arrivarono in Sardegna dal mare e solo la carenza di ricerche scientifiche non consente di affermare che la Gallura era abitata fin dal Paleolitico. Le testimonianze più antiche della presenza umana risalgono al Neolitico antico e si trovano nelle zone costiere. Sono da individuare nelle tracce lasciate lungo la via dell’ossidiana che partiva dal Monte Arci e, transitando proprio in Gallura, raggiungeva la Corsica e da qui la penisola italiana, la Francia meridionale e la Spagna. Le testimonianze arrivano dalle stazioni all’aperto individuate sui litorali, come quello di Lu Litarroni ad Aglientu, e dai tafoni, le rocce cave del granito adattate dall’uomo preistorico a ripari con semplici aggiustamenti in muratura. Non sappiamo con certezza se la Gallura fosse solo un punto di passaggio dell’ossidiana verso la Corsica o, invece, avesse anche un ruolo di primo piano negli scambi di questa importante materia prima tanto rara quanto preziosa. La presenza di scarti di lavorazione e schegge nei tafoni galluresi, soprattutto quelli dell’Arcipelago di La Maddalena, testimonierebbe la presenza di una lavorazione in loco del materiale, ma gli studi devono essere ulteriormente approfonditi.
A partire dal Neolitico medio, e fino al Neolitico finale, si popola anche l’entroterra; continua l’uso dei ripari sotto roccia, ma nascono anche i primi villaggi in capanne come quello di Pilastru ad Arzachena. Le maggiori testimonianze provengono, tuttavia, dai luoghi funerari, in particolare, dalle necropoli a circoli megalitici di Li Muri e La Macciunitta ad Arzachena. Si tratta di sepolture costituite da una cista quadrangolare in pietra messa al centro di un cerchio in muratura e, in origine, coperta da un tumulo di terra e pietrame che formava una sorta di collinetta artificiale. Alcuni menhir, posti nei punti di tangenza tra i circoli, costituivano presumibilmente i segnacoli delle tombe, e le cassettine che si trovano all’esterno erano utilizzate, probabilmente, per la deposizione delle offerte.
Le necropoli a circolo galluresi sarebbero le prime manifestazioni del megalitismo sardo, comparso con la cultura di San Ciriaco, momento in cui si verifica un cambiamento nella società neolitica con l’intensificarsi degli scambi e, con essi, delle relazioni sociali; una conferma arriva dagli oggetti di grande raffinatezza qui rinvenuti, veri e propri beni di prestigio, tra i quali vasi in pietra, accettine e vaghi di collana in steatite e pietre dure che trovano confronti puntuali in tombe analoghe rinvenute e indagate nel sud della Corsica, nella Francia meridionale e nell’area pirenaica. A partire dalla successiva cultura di Ozieri il megalitismo si diffonde in modo capillare e origina in Sardegna, così come nella vicina Corsica, necropoli a circoli più complessi e articolati di cui la più celebre testimonianza è quella di Pranu Mutteddu a Goni. In questo periodo compaiono anche i dolmen che segnano un cambiamento nel rituale funerario con il passaggio dalle deposizioni singole e sigillate al momento della deposizione proprie dei circoli, alle deposizioni plurime, garantite con la possibilità di aprire più volte il sepolcro per accogliere nuove sepolture. I dolmen galluresi sono sparsi nel territorio, per lo più isolati o a piccoli gruppi: Li Casacci ad Arzachena, Santu Larentu-Vena d’Idda a Berchiddeddu e, più noti, i dolmen di Ciuledda, Alzoledda, Billella e Ladas a Luras.
Per quanto riguarda le grotticelle sepolcrali scavate nella pietra note come domus de janas, il loro utilizzo, diffusissimo nelle aree di cultura Ozieri, è attestato in Gallura solo in modo sporadico e limitato alle zone più marginali dove filtravano con più facilità le influenze culturali delle zone limitrofe nelle quali sono molto rappresentate: Anglona, Logudoro, Monte Acuto e Baronia. Cito qui come esempio le domus di Lu Calteri a Trinità d’Agultu, quelle di Tisiennari a Bortigiadas, una delle quali con motivi incisi sulle pareti interne, e quelle di San Lorenzo e Solità nell’agro di Budoni.
La rarità di questo tipo di monumento è dovuta, presumibilmente, all’estraneità culturale e religiosa dell’ipogeismo artificiale nella Gallura neolitica, che continua la tradizione megalitica consolidatasi con i circoli funerari prima e con i dolmen poi. Non si deve, infatti, alla gran quantità di tafoni disponibili, alcuni dei quali hanno l’aspetto di vere e proprie domus naturali, né tantomeno alla durezza della roccia granitica; esistono, infatti, intere necropoli scavate nel granito in altri territori, alcuni dei quali inseriti nella provincia Olbia Tempio ma culturalmente estranei alla Gallura, come Buddusò e Oschiri.
Alla fine del Neolitico la diffusione dei metalli pone in secondo piano gli strumenti in pietra e la Gallura perde il suo ruolo di testa di ponte, strettamente connesso alle rotte dell’ossidiana. A questo potrebbe essere imputabile il rarefarsi dell’insediamento. Recenti acquisizioni, provenienti dalle isole di La Maddalena e da quella di Tavolara, hanno permesso tuttavia di arricchire il quadro di conoscenze sull’età del Rame, le cui attestazioni sembravano limitate a sporadici frammenti ceramici rinvenuti in qualche tafone. A partire da queste scoperte, dovute in particolare al rinvenimento di materiali della cultura di Monte Claro da parte di G. Pisanu nella spiaggia di Spalmatore a Tavolara, sono stati individuati e sono in corso di studio da parte di chi vi parla altri contesti eneolitici galluresi, anche nell’entroterra.
A questo periodo potrebbero essere riconducibili anche alcune muraglie megalitiche, almeno nel primo impianto. Alcune di esse come quella di Monte Pinu, che segna il confine amministrativo tra i comuni di Olbia e Telti ed è riprodotta sulla copertina del libro, si trovano isolate e prive di qualunque elemento di cultura materiale che possa ricondurle a età preistorica o protostorica; si attendono pertanto i risultati delle ricerche in corso per tentare di comprenderne la reale attribuzione cronologica. La maggior parte delle muraglie comunque, a onor del vero, si trova in luoghi frequentati in età nuragica come quelle di Riu Mulinu a Olbia, Monte Mazzolu ad Arzachena e Sarra di L’Aglientu a Sant’Antonio di Gallura; pertanto, è accertato il loro uso in questo periodo nel quale il territorio fu popolato in modo ancora più capillare che in passato.
In Gallura, la civiltà nuragica si presenta con le stesse caratteristiche con cui si manifesta nel resto dell’Isola, magari con architetture meno complesse e imponenti della Marmilla, del Logudoro, del Marghine, del Goceano, delle Barbagie o del Sarcidano, forse per la povertà del territorio gallurese, in gran parte poco vocato alle attività agro-pastorali. Si hanno nuraghi a tholos come la Prisgiona ad Arzachena o Tuttusoni ad Aglientu, a corridoio come Lu Brandali a Santa Teresa Gallura o Lu Barriatogghju a Palau, di tipo misto, ovvero strutture in cui si ritrovano entrambe le tipologie, come l’Albucciu ad Arzachena o il Loelle a Buddusò. In Gallura predominano i nuraghi a corridoio, forse anche per la presenza massiccia di imponenti emergenze granitiche che hanno rappresentato sicuramente un condizionamento nella scelta della costruzione da realizzare ma anche parti strutturali pronte da inglobare nella muratura, con un conseguente risparmio di tempo e materiale da costruzione.
La dislocazione in punti dominanti era strettamente connessa alla funzione primaria di difesa delle risorse disponibili, dalle quali dipendeva il sostentamento delle comunità: i campi, nei quali si praticava l’agricoltura e l’allevamento, e il mare, luogo di pesca e di scambi. Esistono anche diversi nuraghi ubicati nelle distese pianeggianti, in particolare nella piana di Olbia; tra tutti ricordo i nuraghi Paulelada e Siana.
Il controllo del mare avveniva sia direttamente, attraverso semplici torri costiere, come quella di Municca a Santa Teresa Gallura, che svolgevano la funzione di punto di avvistamento e di faro del tratto di costa in cui erano ubicate, sia a distanza, con nuraghi ubicati nell’immediato entroterra. Estremamente interessante è il caso del nuraghe Barrabisa in comune di Palau, ubicato su un lieve rialzo collinare a brevissima distanza dal Fiume Liscia, che sembra, in particolare, aver svolto la funzione primaria di avamposto strettamente connesso a una via di penetrazione fluviale.
La popolazione, come in tutta la Sardegna, abitava in villaggi di capanne, a pianta generalmente circolare e a doppio paramento murario legato con malta di fango e zeppe, e riempito internamente a sacco con terra e pietre. Il tetto era costituito da un’intelaiatura per lo più conica di grossi pali appoggiati sullo zoccolo murario o conficcati nel piano di calpestio in terra battuta o lastricato con pietre piatte. Talvolta le capanne esulano da questo schema costruttivo, in quanto, così come i nuraghi, inglobano nella loro muratura le rocce granitiche affioranti.
Queste ultime, a volte sagomate e riadattate, hanno condizionato l’andamento della struttura determinando forme spesso singolari e non perfettamente simmetriche, e quindi sistemi di copertura particolari. Una evidente testimonianza è costituita dal villaggio di Lu Brandali a Santa Teresa Gallura, in cui uno degli ambienti, doveva avere un tetto a unica falda, in quanto lo sperone roccioso inserito nella muratura raggiunge un’altezza tale da impedire qualunque altra possibile copertura.
È una costante, nel territorio gallurese così come in tutti quelli in cui domina il paesaggio granitico, la convivenza, nell’ambito dello stesso insediamento, di strutture circolari in muratura e ripari sotto roccia.
Le genti nuragiche galluresi seppellivano i loro defunti, come consuetudine in tutta l’Isola, nelle tombe di giganti; insieme a queste però utilizzavano anche i tafoni. I due tipi di sepoltura sono stati usati contemporaneamente e non si hanno elementi sufficienti per comprendere se la scelta dell’uno, o dell’altro tipo, dipendesse da presupposti di censo o di nascita.
Le tombe di giganti maggiormente rappresentate sono quelle cosiddette ortostatiche per la presenza di grandi lastroni infissi a coltello sia nell’esedra sia nel corridoio destinato ad accogliere le sepolture. Le più note, soprattutto per le dimensioni ragguardevoli e per la maestosità fornita loro dalla stele centinata posta al centro della facciata, sono quelle di Li Lolghi e Coddu Ecchju ad Arzachena, Su Monte ‘e s’Abe a Olbia e Li Mizani a Palau. Quest’ultima, tra l’altro, con quella di Pascaredda a Calangianus, sono le uniche ad aver conservato la stele eretta nella posizione in cui era stata collocata al momento del suo impianto. Oltre le tombe ortostatiche, le più antiche, sono presenti anche quelle realizzate non più con lastroni infissi ma con filari di pietre più o meno lavorate, come quelle di Lu Brandali e La Testa a Santa Teresa Gallura. Per quanto riguarda le tombe di giganti più recenti che presentano al centro della facciata un monolito trapezoidale con tre cavità verticali scolpite, noto come fregio a dentelli, non ci sono chiare attestazioni in Gallura. Un solo elemento con fregio a dentelli è stato rinvenuto nelle immediate vicinanze di una struttura muraria a filari ad andamento semicircolare nella zona di S’Ajacciu d’Inghjò a Palau.
Sebbene il monumento sia noto in letteratura come tomba di giganti, mancando l’elemento principale di una tomba, la camera sepolcrale, si può ipotizzare, in alternativa, che si tratti di un’esedra cerimoniale priva, sin dall’origine, della parte destinata alle sepolture. Nella parte posteriore, ma non a ridosso della struttura, sono presenti strutture murarie realizzate in età alto-medievale, ma non sembra sia da imputarsi a questo successivo utilizzo dell’area l’eventuale smantellamento della tomba, anche perché la pendenza del livello naturale del terreno nella parte posteriore dell’esedra è talmente marcata da essere poco adatta ad accogliere il corpo principale di un’eventuale tomba.
Concludo questa veloce carrellata sui monumenti preistorici e protostorici della Gallura con un accenno ai pozzi sacri e ai tempietti in antis o a megaron. I pozzi sacri, di cui forniscono testimonianza quelli di Sa Testa a Olbia e, anche se parzialmente mutilato, di Milis a Golfo Aranci, sono sempre lontani dagli abitati, isolati e privi di strutture di protezione. Si tratta quindi di luoghi destinati all’incontro di diverse comunità che non avevano, quindi, necessità di essere protetti, probabilmente anche in virtù della loro funzione sacrale che li rendeva naturalmente sicuri. La loro ubicazione molto prossima alle coste suggerisce un utilizzo che poteva comprendere l’ospitalità verso chi arrivava dal mare.
I tempietti si trovano, invece, sempre su imponenti alture granitiche che dominano vaste estensioni di territorio e sono in associazione con capanne, tafoni e, come nel caso del complesso ubicato sulle cime di Monti Canu a Palau, anche con una fonte sacra. I più celebri sono quelli di Malchittu ad Arzachena e Sos Nurattolos ad Alà dei Sardi, anche in quest’ultimo caso in associazione con una fonte sacra.
Voglio terminare questo veloce excursus sulla Gallura preistorica con la considerazione, rafforzata in questi anni di ricerca sul territorio, che ogni buon studio di archeologia del territorio deve essere ancorato alla visione autoptica dei beni e del contesto in cui sono inseriti, volgendo sempre uno sguardo alle altre realtà territoriali. In questo modo spesso siamo spinti a rivalutare posizioni e idee date per consolidate e a comprendere che, in preistoria, l’ipotesi è, in mancanza di prove certe, da preferire alla tesi.
Numerose, infatti, sono le domande e altrettante le certezze troppo relative che sono affidate alle conferme o alle confutazioni proprie delle dinamiche della ricerca.
Mi piace concludere con una felice espressione di Giovanni Lilliu che, in un suo articolo del 1948 (D’un candelabro paleosardo del Museo di Cagliari, in Studi Sardi, VIII, Sassari, pp.35 – 42), trattando proprio della cultura gallurese scriveva: “Non è da escludersi che lo sviluppo delle ricerche può portare nuovi documenti, tali da mutare, parzialmente o totalmente, ipotesi e affermazioni fatte. Non meglio ad altre discipline che alla preistoria si adatta, infatti, la dialettica del movimento, segno di vita”.
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