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Archeologia. Il clima nella Sardegna preistorica e protostorica, di Luca Lai
Creato il 06 aprile 2015 da PierluigimontalbanoLA PREISTORIA E LA PROTOSTORIA DELLA SARDEGNA Cagliari, Barumini, Sassari 23-28 novembre 2009 Volume I - Relazioni generali
ATTI DELLA XLIV RIUNIONE SCIENTIFICA I
RiassuntoIl clima nella Sardegna preistorica e protostorica: problemi e nuove prospettive - Il clima preistorico e l’ambiente naturale della Sardegna sono virtualmente sconosciuti, costituendo una sostanziale lacuna nel quadro della ricostruzione climatica del Mediterraneo Occidentale. Ciò ha anche ostacolato le indagini sull’interazione delle pratiche umane e ed i fattori naturali nella comprensione dei complessi scambi nella cultura materiale dal Neolitico sino all’Età di Ferro. Questo lavoro compendia i risultati di una revisione degli studi paleoclimatici nel Mediterraneo Occidentale, con lo scopo di identificare tendenze comuni che si può pensare ragionevolmente di applicare anche alla Sardegna. Un complesso quadro di aridificazione di lungo periodo dal IV al I millennio AC e diversi probabili episodi di aridità vengono proposti come conclusioni provvisorie e come schema per verfiche più focalizzate, con l’obiettivo di aprire nuove prospettive nell’interpretazione del percorso storico delle società umane nell’isola. Una conferma preliminare viene da un studio biochimico con contesti affidabili datati al radiocarbonio.
In un’ottica che a livello di comunità scientifica internazionale è, o dovrebbe essere, sempre più interdisciplinare, anche l’archeologia, pur nelle diverse branche specialistiche sotto diversi punti di vista, dovrebbe avere come compito quello di descrivere, comprendere e interpretare le vicende umane nella loro relazione tra cambiamento ambientale, economico e culturale, e più specificamente anche identificare correlazioni che possano o meno essere ritenute come connessioni causali tra questi fattori. Per superare le suddivisioni settoriali, ancora troppo forti a causa dei dipartimenti/ scompartimenti accademici, e le dicotomie polarizzanti tra determinismo naturale e culturale, dobbiamo riconoscere che tutti i fenomeni culturali e naturali sono intrecciati, e che anzi la maggior parte delle volte la linea tra naturale e culturale è a sua volta culturalmente indotta. L’importanza di entrambi i fattori, intesi pertanto euristicamente, può variare, e varia in realtà, ma non può
che raramente essere espressa in modo sensato attraverso affermazioni esclusive; piuttosto, sembra rappresentata più opportunamente come un’area all’interno di un continuum tra estremi ideali (fenomeni naturali vs. fenomeni culturali). In questo contributo, pertanto, si intende fornire una sintesi delle informazioni disponibili sul clima in Sardegna in età preistorica e protostorica, nel tentativo di offrire una diversa prospettiva a integrazione delle ricostruzioni culturali tradizionalmente generate dall’archeologia. In questo modo, nuove ipotesi sulle traiettorie dei percorsi umani e sulle loro dinamiche possono essere formulate, per informare e guidare le domande di ricerca del futuro. I dati qui riassunti derivano da una analisi e sintesi dei dati su clima (e in minor misura ambiente) principalmente dal IV alla prima metà del I millennio a.C., effettuate in larga parte nel contesto di un progetto di ricerca volto ad esaminare le intersezioni tra clima, economia e cultura nel IV e III millennio a.C. mediante l’uso di isotopi stabili; parte dei risultati di tali analisi isotopiche hanno poi a loro volta fornito una parziale indipendente conferma alla ricostruzione congetturale. Riguardo la Sardegna, negli ultimi decenni vi sono stati progressi notevoli nei campi della cultura materiale, ma è più lenta la riflessione sui sistemi ideologici e l’organizzazione sociale. Mancano invece quasi del tutto ricostruzioni del clima con dati specifici raccolti in località dell’isola, cosicché una ricostruzione climatica che sia affidabile e sufficientemente dettagliata nelle sue articolazioni è ancora assente. Un primo pionieristico tentativo di ricostruire il contesto climatico e ambientale di sostrato alle culture preistoriche sarde si deve a Serra, nell’ambito del progetto editoriale NUR, pubblicato quasi un trentennio fa e rimasto una lodevole eccezione. In esso si applicavano le conoscenze generali relative al clima olocenico europeo alla realtà sarda, con particolare attenzione al nuragico. Mancavano, come oggi, dati relativi a siti sardi utili alla ricostruzione archeologica, e ovviamente le conoscenze acquisite con studi successivi in ambito Mediterraneo. A parte numerosi studi di paesaggio basati sullo studio del territorio attuale, e studi di sequenze polliniche senza alcun aggancio cronologico, non sono tuttora disponibili studi d’analisi quantitative di dati primari sulle condizioni climatiche o ambientali in siti specifici della Sardegna, almeno nella sezione temporale dall’Olocene medio e recente. Ciò può essere dovuto alla scarsità di strutture, fondi e competenze professionali necessarie per la pratica delle discipline che si occupano di ricostruzione paleoclimatica e paleoambientale a scopo archeologico. Fino a pochi anni fa, non esisteva un laboratorio di palinologia nell’isola, e le collaborazioni che abbiano la preistoria come ambito non hanno ancora prodotto risultati apprezzabili. Pertanto, paragonare i siti studiati della Sardegna con quelli delle aree adiacenti del Mediterraneo Occidentale, dalla penisola Italiana al Midi francese, alle coste iberiche e al Nord Africa e Sicilia, evidenzia quale profonda lacuna essa rappresenti nella documentazione paleoclimatica. Fatta questa premessa, riporto qui un quadro d’insieme delle informazioni paleoclimatiche note e delle fasi identificate, da intendersi come ipotesi di lavoro aventi qualche fondamento. Esse sono ricavate dalla consonanza di tendenze e fasi nell’intera area circostante la Sardegna, per le quali si possa perciò presumere che abbiano interessato anche la Sardegna. Come accennato, sono stati raccolti soltanto dati concernenti i millenni dal IV alla prima metà del I a.C., il che esclude tutta la prima fase del Neolitico, iniziando dalla transizione tra il neolitico medio Bonu Ighinu e quello Ozieri. Le questioni più importanti che hanno guidato la rassegna sono state le seguenti: c’è stato alcun cambiamento climatico e ambientale sensibile? Se sì, è possibile definire cronologicamente, e in modo accurato e significativo, tali fasi? Ulteriori questioni, non coperte qui per motivi di spazio, riguardano la quantificazione di questi cambiamenti in termini di temperatura, piovosità, e stagionalità, e il ruolo degli esseri umani nel contribuire alla trasformazione dell’ambiente. Qualcuno potrebbe chiedersi perché non sia un paleoclimatologo a fare tale sintesi. Una risposta è che nessun paleoclimatologo ha avuto occasione, interesse, risorse o tempo da impiegare in questa direzione. Il presente contributo non intende sostituirsi agli specialisti del settore, ma piuttosto aprire un fronte di ricerca all’interfaccia tra i due ambiti, da affrontare in futuro in collaborazione interdisciplinare. Ini ne, tale studio ha preso forma nel contesto di una ricerca che mirava ad aggiungere una pur parziale serie di dati destinati ad essere confrontati con la ricostruzione congetturale, come è poi stato fatto.
Fonti, metodi e problemi I ricercatori hanno a disposizione numerosi metodi per la ricostruzione paleoambientale, i quali si abbinano alle diverse proxies disponibili. Basandosi sulla scala cronologica che interessa il paletnologo o l’archeologo preistorico, tuttavia, non tutte le proxies possiedono lo stesso potenziale informativo. Infatti, in questa sede sono al centro dell’attenzione gli ambiti di mesoscala e microscala, ovvero, più precisamente, le tendenze di durata tra le diverse migliaia e le centinaia di anni. La situazione ideale sarebbe ovviamente quella che consente di utilizzare informazioni a scale molto più piccole, anche al livello di anno o di stagione, ma ciò contrasta con la cronologia assoluta della Sardegna e della maggior parte della preistoria del Mediterraneo Occidentale, dato che questa è la scala delle datazioni al radiocarbonio -almeno senza l’uso della statistica bayesiana. Infatti, la datazione di fasi archeologiche per mezzo di dendrocronologia pura (cioè i no al singolo anno), possibile ad esempio su materiali sommersi nella zona Alpina e in Europa continentale, è nel Mediterraneo veramente eccezionale. Pertanto, in Sardegna, avere una sequenza di trasformazioni climatiche e/o ambientali a una più alta risoluzione della sequenza culturale parallela sarebbe allo stato attuale delle conoscenze, archeologicamente di limitata utilità. In generale, tra le proxies a disposizione ve ne sono tra le più disparate, nei cui dettagli non è opportuno scendere in questa sede; vanno dalle caratteristiche geomorfologiche alla morfologia di sedimenti e suoli sulla terraferma e in laghi, con particolare interesse per quelli in grotta, i più tradizionali documenti storici, resti faunistici, macro- e microbotanici, e alla dendrocronologia, lo studio dei coralli e delle carote di ghiaccio tra le altre. I metodi vanno dalla semplice osservazione macroscopica alla misurazione di magnetismo e isotopi. Ma non tutti tali metodi sono ugualmente utili per il Mediterraneo: tra questi, ad esempio, le carote di ghiaccio sono studiabili in zone polari e in alta montagna. Gli anelli degli alberi nel Mediterraneo occidentale non si conservano quanto a latitudini nordiche a causa della temperatura e alla maggiore variazione stagionale che diminuisce il potenziale di conservazione; quelle a disposizione non sono state studiate a fondo. Le fonti storiche scritte non sono chiaramente utili per fasi che risultano come minimo un migliaio di anni più antiche della prima apparizione della scrittura in Sardegna (iscrizioni fenicie nel IX secolo a.C.) o delle prime narrazioni mitiche o storiche da parte di scrittori greci o latini (VI-II sec. a.C.). Una discussione sistematica dei principi e dei modi per estrarre informazioni paleoambientali da questi diversi materiali non è inclusa negli scopi di questo contributo, e trova posto in interi manuali; perciò per questo aspetto invito il lettore a consultare bibliografia specifica. Qui mi limiterò a discutere brevemente le principali limitazioni dell’analisi dei pollini, poiché sono risultate fondamentali nel contesto della ricostruzione della storia della vegetazione nel Mediterraneo Occidentale. Ciò per la semplice ragione che la palinologia fornisce ancora l’ampia maggioranza dei nostri dati. Una difficoltà ben nota riguardo l’interpretazione di dati pollinici scaturisce dalla diversa natura delle deposizione attraverso diversi agenti e a seconda delle specie: il polline di alcune è trasportato per lunghe distanze, mentre quello di altre è disperso principalmente da insetti o altri animali entro un breve raggio intorno alla pianta madre; alcune piante sono auto-impollinanti, e il loro i ore non si apre nemmeno. Alcuni ordini producono enormi quantità di polline, mentre altri piccole quantità, cosicché la rappresentazione nei depositi studiati, condizionata anche dalla diversa resistenza alla decomposizione e altri effetti, risulta severamente distorta. Inoltre, soltanto alcune piante possono essere identificate al livello del genere o specie, altre soltanto a livello della famiglia. Queste sono le ragioni per cui gli assemblaggi antichi, anziché interpretati di per sé, sono paragonati ad assemblaggi moderni. Inoltre, passato il gradino di una ricostruzione quanto più possibile fedele della comunità vegetale antica riflessa nell’assemblaggio pollinico, rimane un interrogativo cui spesso è arduo rispondere con certezza: quali siano le cause della variazione. Infatti, una comunità vegetale può trasformarsi per cause climatiche, indipendenti dall’attività umana, oppure cambiare per diretto effetto di pratiche quali incendi, disboscamento di vari tipi, coltivazione etc. Questi effetti, e la loro interazione, dovrebbero idealmente essere distinti e compresi per arrivare a una ricostruzione fedele dell’ecologia storica di un territorio, del quale gli assemblaggi pollinici sono solo un campione ridottissimo. Riguardo l’olocene mediterraneo nei millenni tra il IV e il I a.C., il dibattito è vivace: da un lato vi è chi riconosce un ruolo primario del clima, indipendentemente dall’attività umana, ritenuta non rilevante prima dell’età storica. Dall’altro chi identifica l’impatto umano come fattore principale sin dallo stabilirsi delle economie neolitiche. Da questa premessa risulta chiaro che basare ricostruzioni generali su pochi siti e osservazioni è molto rischioso. Questo vale a maggior ragione per la Sardegna, la cui storia climatica in età pre e protostorica è stata studiata tramite osservazioni e dati esterni all’isola. Si è pertanto tentato di identificare consonanze climatiche su vaste aree Mediterranee con la cautela necessaria a mantenere distinte certezze, probabilità alte o basse, possibilità e speculazioni (che pure non sono prive di valore euristico).
Tendenze climatiche, episodi, e la loro natura.Sono qui riportate le linee generali che la rassegna ha evidenziato dalla fine del neolitico medio. La struttura portante di uno studio palinologico cruciale, sviluppato con una metodologia sistematica e solida che anche se non privo di debolezze, è stata ampiamente accettata e condivisa. Un altro studio di sintesi incentrato sull’idrologia, nel condividere le fasi di aridificazione identificate nell’area del Mediterraneo occidentale, le ha messe in relazione con altre proxies. Da questi e numerosi altri studi, una tendenza generale progressiva verso il disseccamento è chiara durante il periodo dal 4000-2000 a.C. circa. La cronologia delle diverse fasi, purtroppo, ha maglie larghe e imprecise. Tuttavia, due punti sono ampiamente riconosciuti: vi fu una ripartizione dell’Olocene in due fasi a livello regionale così come globale (calda e/o umida in opposizione a fresca e/o secca); a dispetto della cronologia che ha necessità di essere rai nata, sono state identificate delle fasi aride distinte. Osservando tutta la gamma di proxies, si ha una forte impressione di cambiamenti climatici significativi che non dipendono dall’attività umana, e sono state connesse a cambiamenti nell’esposizione solare dell’emisfero N, con slittamenti N-S delle fasce climatiche globali e dei venti da W che portano pioggia al Mediterraneo. A parte il trend di crescente aridità dalla fase caldo-umida del V mill. a.C. al I mill. a.C., il più importante cambiamento climatico e ambientale avvenne durante il III millennio a.C., che in Sardegna sta a cavallo tra età del rame e bronzo antico. Altri importanti dati provengono dalla misurazione della suscettibilità megnetica di sedimenti in grotte Mediterranee, che identificano fasi di aridificazione parzialmente compatibili con quelle degli studi citati sopra e con numerose altre sequenze nella penisola italiana, nel Midi francese, nella penisola iberica, N Africa e isole del Mediterraneo centro-occidentale. Seguendo questa struttura, la fase arida alla fine del V-inizi IV millennio a.C. trova corrispondenza in Italia centro-settentrionale, e particolarmente nella fascia meridionale del Mediterraneo: in Tunisia, nel Mar Ionio e nei pressi di Gibilterra. La fase arida successiva sembra corrispondere con gli inizi dell’accumulazione di sedimenti di polvere di origine eolica a Lampedusa dopo la metà del IV millennio a.C., mentre simili periodi nelle latitudini settentrionali sono caratterizzati da notevole instabilità, con livelli d’acqua oscillanti nei laghi del Massiccio del Giura e l’inizio dell’accumulo di ghiaia nelle Alpi meridionali, e tre episodi di tempesta datati tramite dendrocronologia al Lago di Costanza. Analoga instabilità è stata documentata in Italia del centro-Nord tramite isotopi dell’ossigeno, un picco piovoso si registra a Cubelles (Catalogna) dopo la metà del IV millennio. Tale instabilità è anche stata documentata su scala globale, manifestandosi principalmente come condizioni aride, e spesso fresche. Un buon accordo nella cronologia unisce la lunga fase secca identificata tra 3000 e 1900 a.C. circa nella maggioranza delle aree esaminate: si registrano eventi aridi attorno al 3000 a.C., a San Rafael (Spagna), al Lago di Pergusa, Sicilia, e a Tigalmamine, Marocco. Questa fase è stata documentata in Italia centrale da sequenze polliniche, dati sedimentari e isotopi dell’ossigeno; in Francia meridionale e nelle Alpi dagli studi idrologici; in N Africa, da dati sulla sedimentazione. Questo periodo sembra avere visto una migrazione a N del fronte polare. Dai dati pollinici dell’Italia centrale e dalla costa occidentale del Mediterraneo, pare che questa lunga fase secca possa articolarsi in due periodi separati da condizioni relativamente più miti; il primo -attorno al 2900-2700 a.C.- coincide con l’improvviso ‘collasso’ climatico individuato in Tunisia. Il secondo periodo - intorno al 2300-2100 a.C., a parte i dati palinologici, è documentato anche dai livelli dei laghi alpini, e coincide con una fase calda individuata nell’Adriatico meridionale tramite gli alkenoni, con depositi eolici a Lampedusa, e una consistente massa di osservazioni nel Mediterraneo orientale e oltre. Questa fase coincide in Sardegna e altrove con una forte cesura nell’organizzazione insediativa del territorio, con la fine delle comunità stanziate in villaggi. Dopo un miglioramento della piovosità nei secoli a cavallo del 2000 a.C., è stato riscontrato un periodo abbastanza caldo e secco che si prolunga i no agli ultimi secoli del II millennio, che in Sardegna accompagnerebbe il graduale sviluppo che dalle fasi Bonnanaro e sa Turricula porta al Nuragico. La prima metà del I millennio a.C. appare, conformemente a dati relativi all’Europa temperata che identificano la fase Subatlantica, più fresca, e forse più piovosa. In Marocco e nelle Alpi, tuttavia, una breve fase arida è documentata intorno ai primi secoli del millennio. Anche se la natura dei cambiamenti non è chiara, sembra, da diverse fonti, che un periodo di instabilità sia iniziato tra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C., età che in Sardegna coincide con il passaggio tra il bronzo finale e il primo ferro. Tale instabilità potrebbe anche avere preso la forma di una fase di aridità e imprevedibilità meteorologica di un ordine temporale da meno di uno a pochi secoli, attorno ai secoli X-VIII a.C. Prospettive e Osservazioni conclusive Diversi aspetti sono ancora da definire, per i quali si rimanda agli studi specifici. Uno è quello dell’esatta distinzione in tali cambiamenti del ruolo giocato dalla temperatura e dalla piovosità, che influiscono in modo complesso su comunità vegetali e su vari parametri, quali gli isotopi dell’ossigeno. Il secondo è proprio quello delle ipotesi relative ai cambiamenti nella composizione delle diverse comunità vegetali stesse, che possono essere fatte soltanto in analogia a quanto documentato nel resto del Mediterraneo occidentale e soprattutto in Corsica. Questa sintesi della rassegna svolta sui dati paleoclimatici con una prospettiva archeologica costituisce ovviamente uno spunto per ulteriori studi. Le fasi andranno verificate con studi specifici, alcuni dei quali sono in corso. Uno studio biochimico di tessuti ossei umani che ha coperto soprattutto il III millennio a.C. ha fornito rapporti isotopici dell’ossigeno che costituiscono una sostanziale conferma alla ricostruzione sopra delineata, confortando la validità dell’idea metodologica di fondo, pur non ortodossa, utilizzata per mettere insieme una massa di dati di natura e scala diverse, e raccolti con altre finalità. Tale studio ha avuto come scopo quello di studiare il cambiamento tra diversi fattori naturali e culturali, osservando la correlazione tra trasformazioni nella cultura materiale, nell’economia e nelle coordinate climatiche. A questo scopo, è stata effettuata una sintesi di taglio antropologico dei vari ambiti già studiati, ovvero la cultura materiale, gli aspetti rituali, funerari e sociali, quelli economici e soprattutto alimentari, e quelli appunto climatici. Ini ne, sono stati analizzati campioni ossei umani di gruppi scelti con cura per la potenzialità informativa, dai quali si sono tratti dati quantitativi riguardo dieta, clima, residenza, laddove possibile differenziando sessi e gruppi d’età. Le conoscenze acquisite, che non riguardano direttamente l’argomento di questo contributo, pur se con ampio spazio per verifiche future, hanno consentito di formulare una sintesi storica (e ipoteticamente di ecologia storica) delle dinamiche di trasformazione della preistoria sarda che appare molto più articolata di quelle finora avanzate. Per garantire l’attendibilità di tali ricostruzioni, la datazione assoluta di tutte le serie scheletriche è stata verificata radiometricamente laddove dubbia, e alcuni siti chiave con stratigrafie complesse di particolare rilevanza sono stati studiati più a fondo. Questo ha portato in alcuni casi a dover accantonare alcuni gruppi, ma ha allo stesso tempo rappresentato un notevole raffinamento della cronologia dal neolitico recente al bronzo antico. Vista la loro rilevanza, queste datazioni, che saranno riportate, commentate e analizzate in dettaglio in pubblicazioni di prossima uscita, sono anticipate in questa occasione in forma breve in Tab. I. A titolo di esempio sulle prospettive aperte dallo studio, si possono citare alcuni aspetti: la riduzione della durata supposta per la cultura Ozieri classica a forse pochi secoli, di contro a una durata ultramillenaria per la sequenza Post-Ozieri - ovvero dal Sub-Ozieri a varie fasi Filigosa-Abealzu come ipoteticamente definite da Melis; l’apparente corrispondenza della nascita e fine della cultura di Monte Claro con due fasi di aridità, e il netto aumento nel consumo di prodotti animali documentato a Scaba ’e Arriu rispetto alla fase precedente; la probabile identificazione di fenomeni di transumanza nel gruppo campaniforme di Padru Jossu, in corrispondenza della fase arida; la mancata conferma della caratterizzazione pastorale della cultura Bonnanaro da alcuni ipotizzata; a ciò si aggiunge, al di fuori di questo studio, la possibile coincidenza delle trasformazioni sociali e cultuali nuragiche con la fase climaticamente instabile del bronzo finale.
A partire da queste considerazioni, prende forza l’auspicio che l’archeologia sarda, come altri casi a livello globale, possa avvantaggiarsi di una riflessione più olistica che includa elementi climatici e ambientali nelle ricostruzioni storiche relative ai millenni precedenti la diffusione della scrittura. Troppo spesso la mancanza di dati empirici ha condotto a ricostruzioni delle economie preistoriche nelle diverse fasi come uniformi e basate su paradigmi legati a concetti di sussistenza; sempre di più appare chiaro, invece, che la sussistenza è una categoria euristica da utilizzare in connessione con i fattori culturali e simbolici, che le società preistoriche hanno attraversato profondi cambiamenti, talvolta repentini, e che gli strumenti tecnologici per indagarne le relazioni causali necessitano di continuo aggiornamento e progettualità interdisciplinare. Senza cadere in semplicistici determinismi né culturali né ambientali, l’archeologia sarda può e deve riservare spazio e risorse maggiori all’ecologia storica, per la opportunità scientifica ma anche per gli insegnamenti che essa può fornire sull’interazione tra gruppi umani e ambiente in tempi di rapide trasformazioni quale l’era in cui viviamo. Questo reinserirebbe l’archeologia nel gruppo delle scienze applicate, in un senso finora severamente trascurato, a detrimento della nostra società e dell’archeologia stessa.
Fonte: www.academia.edu
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