di Pierluigi Montalbano
Le tracce di cultura nuragica a Tharros sono evidenti. Già il toponimo fornisce la sicurezza di un insediamento antecedente l’arrivo dei commercianti levantini che si fusero con la popolazione locale dando vita all’insediamento complesso che ritengo fosse la capitale del mondo economico nuragico. (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore). L’organizzazione della comunità vede l’accoglimento, da parte dei nuragici, di genti straniere interessate a scambiare merci e tecnologie. Nell’area sono presenti, da sud verso nord, una serie di nuraghi: S’Arenedda, Baboe Cabitza, il monotorre sul colle di San Giovanni, il complesso con villaggio sul pianoro di Murru Mannu, il Preisinnis edificato in basalto sulla parte occidentale della laguna di Mistras. Fra questi, l’unico interessato a campagne di scavo è il sito di Murru Mannu. Attribuibile al periodo a cavallo fra Bronzo Medio e Recente, è un frammento miceneo attribuibile a un vaso con decorazione floreale. Nel Primo Ferro, parte dell’area del villaggio è stata smantellata per far posto al tofet, testimonianza forte della presenza fenicia nell’area. Nel colle di Murru Mannu gli archeologi hanno trovato cocci di una fiasca da pellegrino in ceramica d’impasto nuragica, grigia, comparabile con quelle conosciute a Monte Olladiri (Monastir), Piscu (Suelli), Santu Brai (Furtei), Nurdole (Orani), e nelle vicine Neapolis e Othoca (Is Olionis). La stessa tipologia di fiasche è presente dal Primo Ferro a Sant’Imbenia e a Sulky, e consente di trovare un filo conduttore dei commerci navali che lega indissolubilmente la costa occidentale sarda al Vicino Oriente, soprattutto a Cipro, l’isola del rame. Sul colle della Torre di San Giovanni, scavi archeologici hanno consentito di portare alla luce due manufatti nuragici integri: una pintadera e un vaso a cestello del VIII a.C. Un buon numero di bronzi nuragici sono stati scavati nell’Ottocento nell’area della necropoli meridionale di Tharros (Torre Vecchia): una navicella, una coppia di buoi aggiogati, un bottone, il manico di un pugnale, un piccolo pugnale miniaturizzato e varie faretrine, oltre oggetti d’uso come spilloni, una lama di pugnale, spade a costolatura mediana e armille. Lilliu alla fine del secolo scorso ricondusse la presenza di questi bronzi agli scambi fra nuragici e fenici, forse doni o oggetti di prestigio riferibili a sepolture di aristocratici sardi. La deposizione funeraria di tali oggetti potrebbe rientrare in un’ipotesi di trasmissione di cimeli di famiglia (quindi più antichi) con riti che esaltavano il passato glorioso ed eroico dei sardi.
Tracce di consumo e di riparazione, che testimoniano il riuso dei manufatti, sono i fori di sospensione di alcune faretrine e la presenza di un anellino, realizzato con filo di bronzo, applicato a un foro rotto. I commercianti levantini che frequentavano l’area di Tharros furono protagonisti, con i locali, di un florido periodo di rapporti di scambio e interrelazioni (Zucca, 2013). Una parte degli insediamenti nuragici della zona sono distanti poche centinaia di metri dal mare e ciò testimonia la presenza, non necessariamente in scansione cronologica, di genti levantine (ciprioti, tirii, aramei, filistei, gibliti, sidoni, cretesi). Lo stretto rapporto tra Cipro e la Sardegna attivò certamente una marineria nuragica che si avvalse di infrastrutture portuali delle quali oggi, purtroppo, si rilevano solo poche tracce nel bacino occidentale della laguna di Mistras (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore). Se è vero che nella Sardegna del II Millennio a.C. non sono stati rilevati cantieri navali, ciò non impedisce di ipotizzare che negli approdi il rimessaggio delle navi era praticato, come è testimoniato nel resto del mondo mediterraneo. Intorno al 1150 a.C. presso le comunità nuragiche si nota la presenza di materiale cipriota (bronzi e ceramiche) fra i quali spiccano i tripodi e gli specchi. I locali rielaborano i modelli del Vicino Oriente e introducono le novità verso le comunità interne attraverso il Tirso. Un tripode bronzeo con decorazione a zig zag giunge fino a Samugheo, a 32 km a est della foce. Altri frammenti sono stati ritrovati a Solarussa, a 10 km a nord-est della foce del Tirso. Nei contesti nuragici del Bronzo Finale, compaiono martelli, palette, molle da fonditore e lingotti ox-hide interi (con marchi di fabbrica incisi sulla faccia superiore) e frammentati. Ciò suggerisce con forza l’inserimento dell’isola nella rotta tra Oriente e Occidente di navi levantine come quelle naufragate nelle coste a sud dell’attuale Turchia, a Uluburun e Capo Gelydonia (SRDN, Signori del mare e del metallo, Montalbano, 2009). I traffici con Cipro nel X a.C. sono testimoniati anche dalle ceramiche fuori contesto originario scavate a Tharros nel 1989 da Bernardini. Altre tracce di scambi fra nuragici e levantini sono evidenti nei bronzi di fattura siro-palestinese ritrovati nel pozzo di Santa Cristina e in quello di Santu Antine di Genoni, a 38 km a est del Golfo di Oristano. Sempre a Genoni gli archeologi hanno trovato un pugnale con immanicatura in avorio di fattura levantina, forse filistea, così come filisteo è uno scarabeo di Tharros del V a.C. che testimonia un teoforo composto dal massimo dio filisteo Dagon, e un frammento fittile di sarcofago antropoide che consente di ricostruire un contenitore cilindrico di 60 cm di diametro con volto umano nella parte superiore e braccia con mani congiunte sotto il viso, secondo lo schema tipico dei sarcofagi filistei.
Altre tracce dei rapporti pacifici fra nuragici e genti del Vicino Oriente sono testimoniati dalla pratica della vinificazione. A cavallo fra Bronzo e Ferro si sviluppa nell’isola, in particolare nella zona della Nurra (Sant’Imbenia), la produzione industriale di un’anfora per il trasporto del vino testimoniata anche a Irgoli, San Vittorio (Isola di San Pietro), San Vero Milis (S’Uraki), Nuraxinieddu (Oristano), Su Cungiau ‘e Funtana, ed esportata in Etruria, a Cartagine, in Andalusia, a Gadir e Huelva. Queste anfore, associate spesso con brocchette askoidi sarde riccamente decorate, diedero vita a imitazioni locali a Vetulonia, Creta, Cartagine, Mozia, Lipari e nella Sicilia sud orientale. In ambito etrusco, la circolazione di queste ceramiche sarde testimonia l’accoglimento da parte delle èlitees villanoviane del Primo Ferro di forme di commensalità cerimoniale di matrice sarda con consumo di alimenti e bevande rivelato dall’uso dello strumentario vascolare ad essi connessa (Delpino 2002). La Sardegna del Primo Ferro rivela l’acquisizione e il consumo del vino speziato con la diffusione di coppe tripodate, conosciute in oriente per il legame con la triturazione di spezie e il consumo di vino aromatizzato (Bernardini, 2008). Nell’isola, questi tripodi sono testimoniati a Nora, Bithia, Sulky, Neapolis, Othoca, Tharros, Sant’Imbenia, Senorbì, Sirai, e nuraghe Sa Ruda di Cabras. L’intreccio culturale nuragico-levantino si coglie particolarmente nell’insediamento del principale nuraghe dell’area oristanese: S’Uraki, a San Vero Milis. Quì è rilevante la presenza di ceramiche in red slip e altre a decoro metopale presenti nel 750 a.C. a Cartagine, Mozia, Sulky e Sant’Imbenia (Stiglitz 2007). La fusione fra sardi e commercianti levantini non si arresta a S’Uraki. Altre ceramiche sono attestate presso gli insediamenti dei nuraghi Prei-Medau (Riola), Figus de Cara Mannu (Cabras), Arganzola (Narbolia) e l’isola di Mal di Ventre. Il destino del mercato del Golfo di Oristano è legato certamente alla presenza di attrezzati approdi lungo la costa (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore), e un’iscrizione del 300 a.C. riferibile ad un tempio dedicato a Melqart, la divinità di Tiro e dell’espansione commerciale, pare dimostrarlo. A rafforzare l’ipotesi c’è la tradizione delle iscrizioni puniche di Tharros, sviluppatasi forse a partire dal santuario. Gli scambi attuati in questo emporio fenicio dovrebbero spiegare la presenza del prestigioso scarabeo ritrovato nella tomba 25 della necropoli di Monte Prama (Zucca, 2013). L’archeologo Zucca riferisce che probabilmente l’intenso scambio fra levantini e sardi creò le condizioni per la produzione delle statue di Monte Prama e rese possibile l’intesa sul mare che porterà alla deposizione simbolica nel santuario di El Carambolo (Sevilla), fra gli altri approdi sardi, di una navicella fittile, ridotta alla prora, con protome bovina.