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Archeologia in Sardegna. Porti e Approdi della Sardegna nuragica: Tharros, Othoca e Neapolis...il Golfo di Oristano
Creato il 03 aprile 2014 da Pierluigimontalbanodi Pierluigi Montalbano
Il Golfo di Oristano
Il concetto chiave sul quale dobbiamo basare le nostre ricerche sui porti e gli approdi della Sardegna antica è la dinamica del paesaggio costiero. Sono quasi assenti i paesaggi costieri naturali, nei quali l’uomo, col suo passaggio, non ha avuto alcun ruolo. I paesaggi sono stati sempre frequentati e quello del Golfo di Oristano è stato fin dall’antichità uno dei più antropizzati, soprattutto in funzione della portualità.
La dinamica del paesaggio scaturisce da un’interazione fra i fattori naturali e quelli antropici. La sciagura che nel Marzo 2011 ha colpito il Giappone è un esempio dell’attività che le forze endogene della natura possono manifestare, dando luogo a mutamenti profondi e immediati del paesaggio. Lo tsunami e le forti scosse di terremoto hanno provocato delle variazioni sostanziali della costa che conoscevamo. Ma anche senza invocare fenomeni sismici o di maremoto, in relazione alla grandiosità dell’Oceano Pacifico e della evidenza del movimento delle placche terrestri che hanno portato a tale forza, dobbiamo avere piena coscienza che in un terra a bassa sismicità come la Sardegna, si possono verificare dei fenomeni di varia natura che portano ugualmente al profondo mutamento del paesaggio nel corso delle ere geologiche.
In precedenza gli studi sulla portualità antica del Golfo di Oristano hanno fatto riferimento ai fenomeni di bradisismo, ossia un periodico abbassamento (negativo) o innalzamento (positivo) del livello del suolo, riscontrati nelle città sommerse di Nora e Tharros. Il bradisismo non è avvertibile in se stesso, ma riconoscibile visivamente lungo la riva del mare, mostrando la progressiva emersione o sommersione di edifici, coste, territori. Tuttavia da diversi decenni si escludono i fenomeni di bradisismo per spiegare la sommersione di alcuni elementi delle due città, compresi quelli di carattere portuale. Effettivamente ci sono delle strutture che sono andate sott’acqua ma il motivo è differente.
Il livello del mare è andato sollevandosi nel corso di numerosi millenni dell’ultimo periodo, quello dell’Olocene. Nel Mediterraneo questo sollevamento non avviene allo stesso modo nelle varie località, e ci sono profonde differenze di risalita del mare nei vari settori. C’è anche un fenomeno opposto a quello della risalita del livello, vale a dire la subsidenza, ossia un lento e progressivo abbassamento verticale del fondo di un bacino marino. I due fenomeni opposti sono entrambi alla base di profonde differenze fra il paesaggio dell’antichità e il paesaggio odierno.
La Sardegna del 5000 a.C. e dei millenni seguenti, ha subito profonde modificazioni della linea di costa. Questa dinamica del paesaggio è da tenere in considerazione durante gli scavi archeologici. Percorrendo le strade di Tharros, lastricate al principio del II d.C., dobbiamo sforzarci di capire che il paesaggio che si presentava agli occhi di un viandante dell’epoca è ben diverso da ciò che vediamo oggi. Anche le condizioni climatiche sono differenti perché ci sono stati periodi di maggiore piovosità alternati ad altri di maggiore aridità, e il sistema idrografico del Sinis, ossia l’area sulla quale sorge Tharros, è variato nei millenni. Il territorio, oggi quasi desertico tanto da essere stato utilizzato da una compagnia cinematografica per ambientare alcuni film, era perfetto per rappresentare l’assolato west americano. San Salvatore di Sinis, in quei film di mezzo secolo fa, mostrava un paesaggio con diligenze, pistoleri, saloon e tutti gli altri elementi utili alle scene western. Ma il paesaggio desertico del Sinis vale solo per quel periodo, perché il regime delle acque è cambiato nei millenni.
Probabilmente l’attuale corona di lagune, comprendendo quelle di Cabras, di Santa Giusta, di Marceddì, di San Giovanni e di Santa Maria, era differente. La geoarcheologia, la geomorfologia e altre discipline offrono una risposta a vari quesiti. La ricerca dei paesaggi costieri, e dunque della portualità, è frutto di un complesso di studi e di ricerche, e varie università lavorano al progetto.
Tharros
Il Padre dell’archeologia sarda, il Canonico Giovanni Spano, nel 1861, riteneva di identificare il porto di Tharros, all’interno del golfo di Oristano, tra la Torre Vecchia del Capo San Marco e l’area urbana, allora non ancora riportata alla luce. Un secolo dopo, nel 1965, dopo l’avvio nel 1956 degli scavi del centro urbano, il Generale Giulio Schiemdt, sulla base delle fotografie aeree scattate nel 1957, ipotizzava l’esistenza di un complesso di banchine portuali sommerso, posto fra le terme meridionali e quelle settentrionali di Tharros.
Nel 1979 la prima ricognizione subacquea dei fondali di Tharros, per opera di Luigi Fozzati e di Piero Bartoloni, cattedratico di archeologia fenicio-punica dell’ateneo sassarese, identificava una possibile presenza di strutture sommerse presso il Mare Morto, fra il colle più settentrionale di Tharros (loc. Murru Mannu) e le baracche dei pescatori. Nel triennio 1984-1987 l’israeliano Elisha Linder, autore di eccezionali scoperte nel porto di Cesarea, costruito da Erode il Grande, identificò dei moli frangiflutti, sommersi, in corrispondenza dell’area compresa fra il battistero paleocristiano tharrense e il colle di Murru Mannu. Nel 1985 il Fioravanti riteneva probabile una ubicazione del porto in un’antica area lagunare oggi interrata, a nord di Murru Mannu.
Nel 1999 un volumetto a cura di Acquaro, Marcolongo, Vangelista, Verga, dal titolo “Il porto buono di Tharros”, presentava l’ipotesi di una strada di collegamento fra il centro monumentale di Tharros e il porto, localizzato a nord di Murru Mannu, fra due linee difensive della città.
Nel 2005 Attilio Mastino, Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca, nel volume Mare Sardum, a proposito del porto antico di Tharros scrivono: “Le indagini geomorfologiche hanno dimostrato che la palude che si frappone tra il Porto Vecchio e lo stagno di Mistras è il risultato di un fenomeno dinamico di interrimento, che ha lasciato testimonianza nei vari cordoni dunari che testimoniano un progressivo spostamento verso oriente della linea litorale. Si può ricavare l'esistenza di un braccio di mare insinuantesi originariamente verso occidente, a lambire l'area dell'abitato odierno di San Giovanni di Sinis, successivamente ridotto a specchio lagunare e ancora a palude”.
L'esistenza di una necropoli fenicia arcaica nella fascia costiera di San Giovanni, distinta dall'altra necropoli fenicia di Torre Vecchia, a mezzogiorno dell'abitato punico e romano di Tharros, potrebbe forse essere posta in rapporto con il centro portuale tharrense di Porto Vecchio.
L’ipotesi formulata nel libro Mare Sardum di “un braccio di mare insinuantesi originariamente verso occidente”, in direzione di San Giovanni di Sinis, ha portato gli studiosi a effettuare ricerche mirate alla risoluzione del problema. Le foto aeree del Golfo mostrano uno spazio lunato delimitato dal colle di San Marco e dal promontorio della Frasca. Sullo sfondo si trovano progressivamente i monti dell’Arcuentu, del Monte Linas, la piana del Campidano con il baluardo di Monreale e, infine, il Monte Arci. Un golfo che appare chiuso perché appena 6 miglia nautiche separano i due capi. Questo golfo può ben prestarsi ad accogliere navi.
L’archeologo Zucca, riporta testimonianze, soprattutto di età spagnola, relative alla possibilità per flotte cospicue di stazionare nel Golfo, il cui fondale è sabbioso e non presenta ostacoli particolari, come secche o scogli affioranti, poiché la profondità rilevabile oggi è di circa 50 metri. Lo studioso prende in esame i dati delle correnti e del vento, simili a quelli che dovevano rilevarsi anche in età antica.
Il vento prevalente è quello da Nord Ovest, il maestrale, e il Sinis, pur essendo poco riparato perché prevalentemente pianeggiante, riesce in alcuni tratti a offrire riparo da questo forte vento. Il ridosso si può ottenere nel settore oggi occupato dalle barche dei pescatori. Altri venti influenti, anche se meno rilevanti, dall’ostro al libeccio e al ponente, portano nuvolosità persistente e pioggia, e riescono a penetrare nel Golfo di Oristano. C’è un gioco di correnti che fa si che il vento di libeccio sia il più grave per le navi che si trovano alla fonda.
Il Golfo di Oristano non è dunque un riparo sicurissimo per le navi, comporta dei problemi e si sente la necessità di attrezzare approdi più riparati per evitarli. La barriera del promontorio della Frasca offre riparo al libeccio, e l’approdo delle navi è favorito. La laguna circolare di Santa Giusta è interna, dotata di un canale che la mette in comunicazione con il fiume Tirso. Ma non sappiamo quando è avvenuto lo sbarramento della laguna. Zucca afferma che inizialmente era una grande insenatura interessata dal moto ondoso e dal gioco delle correnti, ma solo la ricerca interdisciplinare potrà fare chiarezza sulla situazione passata.
Tharros è il porto principale del Golfo di Oristano, posto a nord con il promontorio di San Marco sormontato dalla torre di San Giovanni. Zucca indica una serie di punti fermi:
Sa Mistra Manna o cordone dunario di Su Siccu, che separa il bacino orientale di Mistras dal golfo di Oristano, è formazione recente, non esistente al tempo di Tharros. In quell’epoca il mare entrava con le sue ondate, sospinte dai venti del secondo e terzo quadrante (in particolare scirocco e libeccio), fino a una spiaggia fossile sul versante orientale della lingua di terra detta Sa Mistraredda. In questa spiaggia fossile (beach rock) si sono individuati moltissimi materiali archeologici punici e romani.
La lingua di terra di Sa Mistraredda era più sottile sul lato occidentale, e si notano due linee di spiagge fossili, una delle quali, leggibile per circa ottocento metri, restituisce solo materiali fenici, punici e greci.
Dunque il bacino più occidentale di Mistras era più esteso, almeno in età cartaginese, e tale bacino dovette fungere da porto della città di Tharros. Questa ipotesi si basa non solo su rinvenimenti archeologici ceramici all’interno di questo specchio d’acqua, ma soprattutto sulla scoperta di un probabile bacino portuale scavato nella roccia, all’estremità meridionale di Mistras, non lontano da San Giovanni di Sinis.
Questo porto scavato, secondo Zucca, potrebbe essere il cothon (secondo la denominazione semitica) di Tharros. Il bacino si presenta con una fronte rettilinea di 225 m e con un grande molo lungo 190 m, che lascia un canale di avvicinamento delle navi di circa 50 m. Forse si tratta di una cava riutilizzata per creare tale bacino, connesso agli assi viari che, lungo il margine meridionale e occidentale di Mistras, collegavano Tharros a Othoca e Cornus, mettendo in connessione il territorio destinato alla cerealicoltura.
Il grano e altre risorse erano destinate al consumo interno e all’esportazione marittima. Presso San Giovanni di Sinis, non lontano da questo settore, si è individuato il “Ceramico”, l’area dove gli artigiani di Tharros producevano vasellame e anfore destinate anche a contenere le derrate da inviare all’estero.
La ricerca ha infine evidenziato due grandi argini che s’incontrano ad angolo retto e che servivano il bacino portuale. Altri argini minori sembrerebbero collegati alla coltivazione di saline in età antica. Il porto s’interrò progressivamente a causa della grande quantità di detriti portati a valle dal Tirso, forse già in età altomedievale.
La fine della città di Tharros e il trasferimento dei tharrensi a Oristano potrebbe mettersi in relazione alla decadenza del porto e alla ricerca di un nuovo porto, trovato a Torre Grande e denominato Cuchusio (Cuguzzu). Nel medioevo l’approdo di Capo San Marco va ricercato nella caletta che distava mezzo miglio (615 metri) dal Capo, mentre resta da individuare l’approdo a ridosso di una scogliera, all’interno del golfo, a due miglia dal capo segnalato nel 1520-1521 nel portolano turco di Piri Reis.
La ricerca è appena agli inizi e solo future indagini sulle linee di riva, databili con mezzi archeometrici, consentiranno di definire dettagliatamente la dinamica dei paesaggi costieri di Tharros, la nascita, la crescita e la morte del primitivo porto.
La città di Tharros, così come si presentava negli scavi del 1956, condotti da Gennaro Pesce, era limitata tra il settore di Murru Mannu e la falda orientale del colle della torre di San Giovanni. La zona è protetta dal vento di maestrale, perciò i primi studi archeologici erano mirati all’individuazione del porto di Tharros, proprio nel settore del mare morto (Golfo di Oristano), distinto dal mare vivo, ossia il Mare Sardo. Si pensava a un centro abitato, monumentalizzato e dotato di porto. I dati acquisiti dalla ricerca archeologica e dallo studio della morfologia della costa hanno dimostrato che quella visione era sbagliata.
L’analisi delle foto aeree del sito, fatte dal generale Schiemdt, di fronte al secondo edificio termale mostrano strutture che potevano rappresentare i moli del porto. L’indagine è andata avanti, e nel 1985 Fioravanti ha esaminato l’area di Murru Mannu, il colle settentrionale di Tharros, dove si trova la cortina muraria dell’antica città che ci fa capire la linea di costa nel periodo cartaginese, circa 2500 anni fa. Lo studioso ritenne che il porto si trovasse in una insenatura a nord, ai piedi del tofet, in vicinanza dell’unica via d’accesso naturale a Tharros, che si estende proprio in quella zona.
L’unica fonte antica che parla del porto è del 170 d.C. quando il geografo Tolomeo riconosce Tharros lungo il fianco occidentale della costa sarda. Altre notizie le troviamo in un codice cinquecentesco della passione di Sant’Efisio in cui il santo è fatto sbarcare nel Portus Tharrensis, presso la foce di un fiume, forse il Tirso. Successivamente, nella cartografia medievale e postmedievale è riportato un porto di San Marco, ma non siamo certi che si tratti proprio del porto della città di Tharros. Oggi sappiamo che la variazione della linea di costa nella zona di Tharros è stata notevole, e siamo certi che il porto medievale non sorgeva dove c’era il porto antico.
La portualità di Tharros risale almeno al periodo nuragico perché abbiamo documentazione di scambi internazionali fra nuragici e altri popoli mediterranei. La colonizzazione commerciale del Sinis nella prima Età del Ferro, ossia intorno al IX a.C., trasforma la struttura urbana sarda con una diminuzione del numero degli insediamenti e un aumento della densità abitativa.
I traffici transmarini nel Sinis sono testimoniati dal mercato ceramico molto florido che durò fino alla prima metà del VII a.C. Il maestoso nuraghe S’Uraki di San Vero Milis catalizzava i commerci, ed era collegato con una strada che aggirava le lagune del Golfo e giungeva a Tharros. Proprio a metà di quel sentiero è stato individuato il viale funerario nuragico dell’VIII a.C. nel quale giacevano i frammenti dei giganti di Monte Prama, le più antiche statue in arenaria a tutto tondo dell’occidente mediterraneo. Lungo questa via i ritrovamenti sono stati cospicui perché c’erano numerosi piccoli villaggi.
Nel nuraghe edificato a Murru Mannu è stato trovato un frammento di ceramica micenea del 1400 a.C., sbarcato da una nave proveniente forse dalla Argolide (Tirinto), a dimostrazione di commerci a largo raggio. Gennaro Pesce, nel suo libro dedicato a Tharros, si chiedeva come fosse possibile che i navigli micenei ponessero le ancore a Tharros, ma negli scavi del 1990 nel nuraghe Arrubiu di Orroli, è stato trovato un contenitore di profumi (alabastròn) che, insieme al frammento miceneo, sono i reperti più antichi, di area egea trovati in Sardegna.
Fra i reperti importati, Bernardini ha trovato un vaso a corpo globulare decorato con un uccello e una pianta, proveniente forse da Cipro, databile al 900 a.C. Iniziava l’età fenicia ma i traffici dei sardi erano già floridi e i nuragici gestivano gli approdi. Quando i fenici arrivano a Tharros trovano una situazione ben avviata commercialmente, e progressivamente si integrano.
I sardi vivono a Tharros almeno fino ai primi decenni del VII a.C., ciò è testimoniato dai materiali ritrovati, ad esempio un bronzetto con rappresentati una coppia di buoi aggiogati che proviene dalla zona di San Marco.
Nel 1979 Zucca scavò la 25° tomba di Monte Prama trovando uno scarabeo di produzione levantina, forse cipriota o di Tiro, che secondo lo studioso Stiglitz è databile all’VIII a.C. Evidentemente nel porto di Tharros, ancora nuragico, arrivavano questi oggetti e arrivò anche l’idea della statuaria monumentale, una tradizione tipicamente orientale. I centri nuragici del territorio oristanese, come S’Uraki e Sa Ruda, restituiscono materiali di ispirazione fenicia realizzati dai nuragici. Zucca ritiene che la distruzione delle statue di Monte Prama sia avvenuta per mano di genti che volevano affrancarsi dai nuragici che imponevano pedaggi per l’uso di un porto che deve essere ancora individuato sul piano topografico. Tuttavia, la distruzione del sito funerario potrebbe essere avvenuta anche nel corso delle guerre puniche per opera di Roma.
Nuove ricerche, arricchite da foto aeree, hanno messo in luce l’allineamento di una gigantesca struttura sommersa. Quando la portualità era svolta nella zona settentrionale, il cordone non esisteva ancora. Analizzando gli elementi funzionali alla descrizione delle fasi dell’evoluzione del porto, Zucca dubita che la Tharros fenicia fosse autonoma prima del 630 a.C. perché il tofet e le due necropoli, settentrionale e meridionale, restituiscono materiali che partono da questa data. Ipotizza che la Tharros fenicia iniziò la sua vita indipendente nella seconda metà del VII a.C., mentre in precedenza a gestire i traffici erano i nuragici, con all’interno una comunità fenicia la cui localizzazione è ancora dubbia.
L’area di necropoli fenicia più importane che conosciamo è settentrionale, e suggerisce che il primitivo insediamento fenicio fosse nato proprio in corrispondenza dello scalo portuale del settore di Mistras. Il centro punico, e poi quello romano, sono invece nella zona in cui ancora oggi possiamo ammirarli. Zucca propone che il porto antico fosse, invece, nella zona a nord, nel mare vivo.
Nel Golfo di Oristano, quindi nel mare morto, i cordoni dunali di Sa Mistra Manna e Su Siccu, si sono formati in successione di tempo. La linea di costa del mare interno ha visto la costituzione del primo cordone e di nuove linee di riva più avanzate. Le analisi di archeologia subacquea hanno rivelato che la linea retta lunga circa 150 metri che si nota dalle foto aeree è costituita da blocchi di arenaria quadrati. Proprio in corrispondenza della linea di riva più antica abbiamo quindi una struttura che sembra intagliata e, facendo i saggi di scavo sulle linee di riva fossili, si sono trovati materiali coerenti cronologicamente: in sequenza gli archeologi hanno trovato i materiali fenici, quelli cartaginesi, e i materiali romani.
In età punica abbiamo un porto intagliato e scavato, come a Cartagine e in altri siti. Altri studi propongono un sistema di portualità di Tharros all’interno della laguna di Mistras, che si è progressivamente spostata fino all’età romana. Ebbe il suo ruolo principale in età cartaginese, quando Tharros era probabilmente la capitale della provincia punica di Sardegna. In età romana il porto aveva un ruolo minore perché si trovava nella sponda opposta alla costa laziale. Zucca ritiene che questo dato della variazione della linea di costa, e il progressivo interrimento del porto punico, sia stato un fattore determinante, ma non esclusivo, dello spostamento del porto. Probabilmente si aggiunsero decisioni di carattere politico volute da Roma. Secondo l’archeologo Stiglitz, ciò avvenne anche a Cagliari: la variazione della linea di costa, con la creazione della barra di Sa Scafa, decise il destino del porto della Cagliari punica a Santa Gilla, con il passaggio alla nuova zona della darsena.
Othoca:
Nel bacino di Santa Giusta si trova il canale di Sant’Elia, rettificato nel 1910 perché prima era serpeggiante. Per inquadrare al meglio le vicende della zona dobbiamo tenere conto della dinamica del fiume Tirso, il più lungo della Sardegna, che s’ingrossa notevolmente con l’apporto del fiume Taloro e trascina alla foce una notevole quantità di materiale partendo dalla Barbagia.
Nel 1923 fu costruita la diga di Santa Chiara, ma prima ci furono catastrofiche inondazioni, come quella del 1870 che fece vittime e rese Oristano simile a Venezia, con le barche che circolavano nelle strade. Il flusso delle correnti del Tirso ha svolto un ruolo decisivo sia per la formazione delle barre sia nel decidere il suo regime nella piana. Per scoprire se esisteva una profonda insenatura che giungeva a Santa Giusta, o se la barra si sia formata recentemente, sono state eseguite delle indagini terrestri e subacquee sul canale.
A Sant’Elia è stato rilevato un insediamento nuragico del IX a.C. che ebbe un ruolo di controllo nell’area di Othoca. Nel 1973 è stata portata alla luce una grande quantità di anfore dai fondali dello stagno di Santa Giusta. È difficile dare una chiave di lettura dei fenomeni, almeno fino a quando non si faranno delle ricerche idrologiche approfondite. Il livello dello stagno è bassissimo ma secondo Zucca c’era un ingresso per le navi che consentiva la risalita per un breve tratto del Tirso. All’interno delle anfore ripescate c’erano tracce di carni macellate ma non sappiamo se costituivano il carico di un relitto affondato perché erano disposte secondo una sequenza cronologica molto ampia, dal VII a.C. fino a età tardo romana. Non è ipotizzabile un singolo evento catastrofico che provocò la perdita delle anfore. Zucca propone l’esistenza di un porto ma gli elementi trovati fino a oggi non consentono di leggere una topografia portuale. Anche quest’area era interessata al rapporto con le comunità levantine perché presso il canale di Othoca si è trovato un frammento di tripode cipriota conservato in un museo di Firenze e databile al XII a.C. (tardocipriota III) che suggerisce l’esistenza di uno scalo portuale durato a lungo.
Neapolis:
L’approdo di Neapolis chiude a sud il Golfo di Oristano e dalle immagini satellitari offerte in rete si distinguono facilmente la laguna di Marceddì, la laguna di San Giovanni e la zona dove si trovavano gli stagni di Santa Maria. Fra i reperti trovati in prossimità dello scalo portuale ci sono le statuette ceramiche dei devoti sofferenti che chiedono la guarigione. Gli archeologi propongono che i numerosi insediamenti neolitici presenti in questo territorio, non vivevano in funzione delle lagune. Erano comunità agricole che coltivavano nella fertile valle irrigata dal Rio Cixerri e dal Flumini Mannu che scorrevano insieme. La laguna si formò per sommersione della valle, e le ricerche hanno testimoniato che proprio nella zona degli stagni di Santa Maria si trovava l’approdo di Neapolis.
I depositi delle anfore greche, fenicie e cartaginesi sono stati trovati nel santuario che doveva sorgere in prossimità dello scalo. In età romana (I d.C.) gli stagni erano formati perché proprio nel cordone che divide lo stagno di San Giovanni dagli stagni di Santa Maria, si è trovata una buona quantità di anfore romane. La città di Neapolis, quindi, non poteva più sfruttare il porto adiacente il villaggio perché l’apporto dei materiali trasportati dai fiumi formò il cordone e si dovettero spostare le infrastrutture dal bacino di Marceddì.
In età punica la città accolse il pregiato vasellame greco, e il nome stesso della città è di derivazione greca, ottenuto dalla trasformazione del vecchio nome dato da Cartagine: Macomadas, ossia luogo del mercato nuovo. Questo insediamento garantiva proficui scambi economici con diversi partners internazionali.
Anche nella costa orientale della Tunisia esiste una Neapolis, e dal V a.C. fu tra i maggiori porti cartaginesi, quindi abbiamo vari approdi con lo stesso nome, tutti controllati da Cartagine. Secondo l'acuta interpretazione etimologica di Giovanni Garbini le Macomades puniche (ne sono note tre in Africa e cinque in Sardegna: Nigolosu, Tresnuraghes, Nureci, Genico e Nuoro) segnerebbero altrettanti "mercati nuovi" che si aprivano al commercio cartaginese. Questo spiega, secondo Zucca, la loro dislocazione ai margini del dominio punico. Centri di piccole dimensioni (nulla di paragonabile a Tharros, Sulci o Cagliari), articolati intorno a un nuraghe che ne costituiva il centro ideale e materiale, punto di pacifico incontro tra gli abitanti locali e i commercianti punici che risiedevano sul posto. Le Macomadas riflettono dunque una realtà economico-sociale legata alla presenza cartaginese. In Sardegna esisteva però anche un altro toponimo, formato con la parola maqom "mercato": Macopsisa (oggi Macomer), un mercato che evidentemente non era nuovo e che pur tuttavia era stato abbastanza importante da aver dato il suo nome semitico a un centro sardo. La storia di questa portualità continua nel medioevo perché nei portolani e nelle carte nautiche sono a più riprese menzionati i porti sardi.
A Neapolis il mutamento del paesaggio non ha conservato la portualità di quel porto, pertanto possiamo raccontare solo la storia del paesaggio. La morfologia che possiamo vedere oggi, con uno scenario di stagni, mare e terra, è in realtà un panorama che cambia di continuo grazie alla natura. Noi siamo testimoni della bellezza del paesaggio e siamo chiamati a conservarla, pur nella sua mutevolezza. Dobbiamo capire che alcuni porti sono finiti sott’acqua, altri si trovano sepolti sotto la sabbia e altri ancora sono stati spostati quando le condizioni di approdo non consentivano più lo sbarco dei mercantili e delle altre barche.
Immagini e testo tratti da "Porti e approdi nel Mediterraneo antico" di Pierluigi Montalbano, Capone Editore, in pubblicazione.
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