di Romano Maria Levante
Se è vero che dalle carceri si misura la civiltà di un popolo, l’archeologia carceraria è storia da rispettare e memoria da valorizzare
Luigi Settembrini, che vi fu rinchiuso per otto anni, scrive che quando vi entrò tra i suoi cinque compagni di cella c’era “un abruzzese di un villaggio presso Teramo, e chiamasi Giovanni”, condannato per complicità in undici omicidi, compiuti dal “signore suo padrone” e dai suoi sgherri, aveva solo bussato alla porta eseguendo l’ordine ricevuto, un superstite dell’eccidio lo denunciò e lui fece i nomi dei colpevoli: sei di loro e il padrone impiccati, “egli con altri dannato all’ergastolo, dove è giunto da pochi mesi”. Questa “ouverture” ci introduce al “teatro” di Santo Stefano.
Ha la forma e la struttura di un vero teatro, la sua planimetria rimpicciolita è perfettamente sovrapponibile a quella del San Carlo di Napoli. I tre ordini di palchi diventano celle poste a semicerchio nella concezione “panottica” tipica del teatro, che assicura visione totale della scena da ogni punto. Me mentre nel teatro la scena è al centro dove convergono gli sguardi dai palchi tutt’intorno, nel carcere è l’opposto, gli sguardi delle sentinelle poste al centro devono potersi diramare verso le celle, tutte sotto continua sorveglianza. Al motivo funzionale di praticità ed efficacia per la vigilanza se ne aggiungeva uno quasi subliminale nella concezione di quell’epoca che per recuperare i detenuti occorreva
che le loro menti fossero dominate, e questa struttura lo consentiva.
Il genio italico ha anticipato il trattato che nel 1791 uscì in Inghilterra sulla concezione “panottica” a visione totale del carcere: la progettazione fu dei due principali tecnici dei Borboni, Francesco Caffi ingegnere con Antonio Winspeare maggiore del genio, che avevano partecipato al progetto urbanistico di Ventotene, per il porto, le rampe di accesso e la strada fino al Forte. Il progetto, iniziato nel 1786, si concluse nel 1790 con la costruzione durata 7 anni; nel 1797 fu inaugurato ufficialmente, ma l’utilizzazione iniziò subito con la manodopera carceraria impegnata nei lavori.
Queste sono le prime notizie che ci dà la nostra guida in una visita di due ore che diventa una carrellata su quasi due secoli di storia patria, il carcere è stato chiuso negli anni sessanta dopo le evasioni degli ultimi anni degne di Papillon utilizzate anche come pretesto per estromettere il direttore che aveva ispirato la sua gestione all’umanità e al dettato costituzionale. E’ un vero viaggio nel tempo dove la storia si collega alla sociologia, la politica al costume, nelle parole della guida dalle quali traspare partecipazione personale per quel pezzo di storia d’Italia che mostra anche come da un ordine e una pulizia estrema si può passare a un disordine e un degrado altrettanto estremi.
Ed è una denuncia che ci sentiamo di fare: come viene rispettata e valorizzata l’archeologia industriale – il “Lingotto” di Torino è solo il più evidente di una miriade di esempi – così non si giustifica il colpevole abbandono dell’archeologia carceraria, una struttura che oltre al doveroso rispetto per la storia in essa racchiusa è meritevole, oltre che suscettibile, di valorizzazione sul piano culturale, come altre strutture dismesse, da Procida all’Asinara che non vanno abbandonate.
Santo Stefano, racconta la guida, potrebbe divenire un grande museo sull’evoluzione dei diritti umani. In aggiunta potrebbero esservi ospitati laboratori di ricerca, la piccola isola è una riserva naturale dove si possono rivitalizzare le colture. Al termine della visita, l’accompagnatore ci mostra grandi fotografie di quando il penitenziario era in attività, veramente “ordine e pulizia estrema” almeno esteriore, muri bianchi con le arcate in vista e la disposizione degli altri blocchi oltre al ferro di cavallo del carcere simili a quelle residenze coloniali viste in molti film di ambiente esotico.
E non abbiamo ancora parlato dello spettacolo incantevole che si gode dello sperone su cui si vede “grandeggiare l’ergastolo, che per la sua figura quasi circolare sembra da lungi un’immensa forma di cacio posta su l’erba”, scriveva Luigi Settembrini raccontando minuziosamente il suo approdo nel 1851: ”Per scendere sull’isola si deve saltare su uno scoglio coperto d’alga e sdrucciolevole. Cominciando a salire per una stradetta erta e scabrosa”.
Segue la descrizione di un’isola che non c’è più, non soltanto nel negativo del penitenziario ora chiuso e in rovina, ma neppure nel positivo delle coltivazioni, tornata com’è allo stato di abbandono preesistente al carcere: “Sino a pochi anni addietro l’isola era tutta selvaggia ed aspra; ora è coltivata, tranne una ghirlanda intorno, dove tra gli sterpi e le erbacce pascono le capre pendenti dalle rocce, sotto di cui si rompe il mare e spumeggia. Su la parte più larga e piana del monte sorge l’ergastolo”, scrive sempre Settembrini.
Avevano diversi approdi – dice la guida Salvatore – il Marinella per i velieri e le barche che portavano merci, e il n. 4 per i detenuti e persone con merci alla rinfusa. Poi tre di emergenza, un porticciolo non agibile, la “vasca azzurra” nella roccia vulcanica, l’“approdo del burrone”.
L’arrivo nel penitenziario
Ci guardiamo intorno, cerchiamo di immedesimarci nell’arrivo dei condannati, la scena che si presentava loro è la stessa a parte il colore del muro, oggi annerito: “Il gran muro esterno dipinto di bianco e senza finestre, è sparso ordinatamente di macchiette nere, che sono buchi a guisa di strettissime feritoie, che danno luogo solo al trapasso dell’aria”.
Il condannato non poteva godere dello spettacolo della natura, e noi che abbiamo di fronte la bellezza del mare e la nera sagoma del penitenziario possiamo apprezzare le parole di Settembrini: “Non si può dire che tumulto d’affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non dovrà più rivedere; con che frequenza respira e beve per l’ultima volta quell’aria pura; con che desiderio cerca di suggellarsi nella mente l’immagine degli oggetti che gli sono intorno”.
Quindi la descrizione degli edifici dopo la “terribile porta”: un casolare sulle rovine della Villa Giulia di Santo Stefano, dependance della grande Villa Giulia che a Ventotene divenne quasi un carcere a sua volta, o meglio un luogo di espiazione per le imperatrici cadute in disgrazia in un vero paradiso della natura; un recinto con le croci del “cimitero dei condannati”; la “casetta del tavernaio divenuto coltivatore dell’isola”; e poi, “un edificio quadrangolare sta innanzi l’ergastolo, e ad esso è unito dal lato posteriore”.
Due torrette agli angoli, cinque finestre e la porta di ingresso con la sentinella, dove non c’è scritto “perdete ogni speranza o voi che entrate”, non sono degni neppure di questo, ci si rivolge alla società affermando che “finché la santa Legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo Stato e la proprietà”, e lo si fa in latino: “Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis vincta tenet, stat res, stat tibi tuta domus”. Commenta amaramente Settembrini: “Parole non lette o non capite dai più che entrano, ma che stringono il cuore del condannato politico e lo avvertono che entra in un luogo di dolore eterno, fra gente perduta, alla quale egli viene assimilato. Bisogna avere gran fede in Dio e nella virtù per non disperarsi”.
Poi un cortile quadrilatero circondato dalle abitazioni dei sorveglianti, con magazzino, forno e taverna: Settembrini descrive il personale, oltre al comandante, ufficiale di marina e al suo aiutante detto “comite”, “pochi caporali, e bastevole numero di aguzzini; un altro ufficiale comanda un drappello di soldati, i quali guardano l’esterno. Vi sono anche due preti, due medici,un chirurgo e tre loro aiutanti; v’è il provveditore e il tavernaio”. Un microcosmo che si è profondamente modificato nel tempo, ma di cui è illuminante riscoprire la consistenza nella fase storica iniziale.
La descrizione dell’ingresso nel carcere si fa incalzante: gli “aguzzini coi loro fieri ceffi” perquisiscono e tolgono la catena ai condannati all’ergastolo, la controllano ai condannati ai ferri, poi la registrazione e le prescrizioni del comandante “dopo averti biecamente squadrato da capo a piè”, se si violano “vi sono le battiture e la segreta”. Si attraversa un secondo androne, un custode apre il cancello sul ponte levatoio che fa superare il muro con la palizzata e il fossato, “varchi il ponte ed eccoti nell’ergastolo. Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto, dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi,che sono i tre piani delle celle dei condannati; immagina che in luogo del palcoscenico vi sia un gran muro…che nel mezzo di esso muro in alto sta una loggia coverta, che comunica con l’edificio esterno, e su la quale sta sempre una sentinella che guarda, e domina tutto in giro questo teatro; e più su in questa gran tela di muro sono molte feritoie volte ad ogni punto. Così avrai l’idea di questo vasto edificio”.
Abbiamo voluto descrivere l’impressione provata entrando nel complesso con le parole di Settembrini nelle quali l’ansia e l’angoscia non celano lo stupore. Lo stesso devono aver provato, pur se si sono aggiunte costruzioni e si sono modificati gli accessi, i detenuti delle epoche successive, in particolare i politici dinanzi all’iscrizione all’ingresso e alla spettacolare scenografia dell’anfiteatro carcerario di forma teatrale.
C’erano 99 celle, 33 per ognuno dei tre piani, tutte per gli ergastolani tranne metà delle celle del primo piano per “un centinaio di condannati ai ferri -scrive Settembrini – nell’altra metà del primo piano i più discoli, nel secondo i meno tristi, nel terzo quelli che han dato prova di essere rassegnati”, il pensiero va alle tre cantiche dantesche. In alto “una loggia scoperta che gira innanzi tutte le celle”, invece dei trentatre archi di ciascuno dei due piani inferiori; nel terzo piano le undici ultime celle sono per l’infermeria “e queste sole invece di buchi esterni hanno finestrelle ferrate, dalle quali si può vedere un po’ di verde e la vicina Ventotene, hanno invetriate e pareti bianchi”.
Un paradiso che Settembrini dopo essere stato all’inferno poté sperimentare descrivendo in modo straordinario ciò che vedeva, fino a scrutare il mare in attesa del vapore che “deve il giorno prefisso comparire da Capo Circiello, accostarsi a Ventotene. Se viene da altra parte non possiamo vederlo”, questo nel progetto della fuga non avvenuta, la liberazione avverrà in modo altrettanto romanzesco.
E’ il momento di entrare nell’anfiteatro, all’interno dello spettacolare ferro di cavallo; prima occorre superare l’ingresso dov’era la recinzione con il ponte levatoio che veniva alzato un’ora prima del tramonto dando la sensazione del totale isolamento, “un’isola nell’isola”, la definisce Settembrini che aggiunge: “Quando è abbassato sempre aspetti e sempre speri, alzato non più aspetti né speri”.
E non è soltanto la prima impressione, se l’8 febbraio 1955, dopo quattro anni di reclusione, scriveva: “Oh come mi ha trasfigurato l’ergastolo! Alle pene fisiche mi sono già abituato: alle pene morali non mi abituerò giammai, soccomberò sì ma combatterò sempre, mi difenderò sempre il cuore, che è la mia rocca, la mia inespugnabile fortezza. Oh povera mente, povero cuore mio, quanti nemici assaltano l’uno e l’altra! Mi viene a piangere quando riguardo me stesso, e miro la mia mentale e morale . No, no, non mi vincerete: io combatterò sino all’ultimo , finché mi palpiterà il cuore. Oh tremendo ergastolo! Oh angoscioso ergastolo che mi squarci tutte le fibre della vita. Oh, mi si spezzasse il petto, e la finissi una volta per sempre!”. Disperazione che supera ogni qualvolta si ripresenta in un percorso psicologico e umano esemplare e illuminante.
In ogni cella erano rinchiusi da 6 a10 ergastolani, negli 11 metri quadrati e anche meno di superficie dovevano restarci per l’intera giornata, a parte l’ora d’aria nella quale potevano vedere soltanto il cielo e non l’esterno. Quindi le 99 celle contenevano 900-1000 detenuti che potevano cucinare all’interno della cella con le fornacette, la conseguenza era un denso fumo nero che la particolare struttura riversava tutto all’interno rendendo l’aria irrespirabile, ci torneremo.
La finestra con le sbarre si trovava sopra la porta e non c’era, quindi, circolazione d’aria. Soltanto una parte delle celle all’ultimo piano aveva l’apertura sull’altra parete, ma era in alto e a bocca di lupo per cui non si poteva vedere l’esterno; quelle dell’infermeria, con la vista sull’esterno verso Ventotene erano l’eccezione, e abbiamo detto che Settembrini vi soggiornò per un breve periodo.
La decisione del 1786 di progettare un carcere per portarvi la “parte marcia della società” deriva anche dalla sua conformazione vulcanica con le coste scoscese, facile da controllare. La struttura “panottica” faceva il resto, con una torretta al centro dove c’è anche una piccola cappella. Nell’avancorpo gli ambienti per la guarnigione militare, la costruzione originale senza aggiunte è in rosa, vivevano in locali così ristretti che la condizione dei custodi non era molto diversa da quella dei detenuti. Già con il Regno delle due Sicilie si provvide ad ampliare alcune strutture per renderle meno invivibili.
Ma fu con il Regno d’Italia che si concessero maggiori spazi a tutti e le condizioni di vita divennero meno severe, gli agenti di custodia potevano anche recarsi a Ventotene, dove peraltro non c’erano particolari diversivi. Furono fatti numerosi lavori edili, che vengono descritti uno ad uno dalla guida Salvatore, ma si tratta di aggiunte e modifiche a una struttura che resta la stessa. In particolare garitte per le sentinelle, prima c’era l’anomalia che i sorveglianti dovevano stare all’addiaccio mentre i detenuti erano al coperto in celle prima comuni poi dimezzate e singole.
Con la Repubblica italiana negli anni ’50 si compie un vero balzo in avanti, arriva un direttore così illuminato da fornire il carcere di servizi ricreativi che non c’erano neppure a Ventotene: una sala cinema, poi anche una sala Tv, un campo di calcio, fino alla pista per go kart. L’approvvigionamento di acqua con navi cisterna era così regolare e abbondante che paradossalmente da Ventotene ci si rivolgeva spesso a Santo Stefano.
Nel 1931 la struttura fu data in enfiteusi a due famiglie di contadini con la relativa casa colonica: si produceva per l’autoconsumo anche con il lavoro dei detenuti, la manodopera carceraria a basso costo rendeva economica la produzione; ora non é più così, già prima della definitiva chiusura del carcere i quasi 30 ettari dell’isola sono tornati incolti, destino del resto comune a tanta parte delle nostre campagne. Si parla di una richiesta di 22 milioni di euro, rimasta senza seguito, l’handicap è la mancanza di sorgenti d’acqua e anche un eventuale dissalatore richiederebbe di rifare il sistema idrico a costi proibitivi; quando l’isola era in attività sopperiva con una-due navi cisterna al giorno e con due grandi cisterne che raccoglievano l’acqua piovana.
La visita prosegue nelle strutture esterne all’anfiteatro, vediamo dov’era lo spaccio e dove le visite dei familiari, la chiesetta e la cupoletta. Si stringe il cuore nel vedere l’orto botanico divenuto un intrico di vegetazione selvaggia e il campo di calcio irriconoscibile per le erbacce che lo hanno invaso, si distingue per gli alti muri che lo circondano, immaginiamo avesse fatto la gioia dei detenuti. Poi il cimitero che guarda verso Ventotene, ci sono 47 tombe con le salme non richieste dalle famiglie, certo nel passato meno vicino non avveniva mai, spesso ai carcerati non restava nessuno e comunque la traslazione era difficile e costosa.
Fonte di immagini e testo: Archeorivista