Per lungo tempo abbiamo pensato che dagli interstizi che fendevano la superficie liscia bel lustrata dell’ordine formale che volevano far regnare da noi, lampeggiassero inquietanti i riverberi di una specie di potere astratto e impersonale, algido e tuttavia feroce.
Quello sono le imperscrutabili fattezze dei mandanti: gli italiani sono abitudinari, finiscono per assuefarsi al ripresentarsi di regimi e dispotismi tipici come lo sono gli stereotipi che ci accompagnano. Siamo un paese tragico nonostante le nostre maschere siano comiche..ed anche i nostri tiranni, si presentano magari in doppio petto e poi si sbracciano nelle giubbe più odiosamente ridicole e più oscenamente sgangherate, oltraggiando noi e dileggiando la gobba dei loro rigoletti o irridendo la statura dei loro nani. Direbbe Revelli che siamo passati dal potere del canto, quello delle sirene d’allarme, spacciate per salvifiche, al canto del potere, disarmonico, remoto eppure invasivo, crudele fino alla dissipazione perfino di sé.
E in molti hanno contribuito pensando che si potesse volgere il carattere demoniaco e mefistofelico del potere da sostanza ferina e irrefrenabile, in strumento al servizio di un qualche progetto di pubblica utilità, di una grande opera di risanamento addirittura virtuosa.
Eppure non occorreva Cassandra e nemmeno la rivelazione postuma dell’Economist per capire che la lenta catastrofe che si svolgeva sotto i nostro occhi in quello che con stanca ironia chiamavamo Bel Paese, l’annientamento del lavoro, la cancellazione dei diritti, l’irreversibile distruzione della bellezza la manomissione con la nostra Carta della sovranità e della memoria di noi stessi, stava accelerando in forma di catastrofe, che i venti che venivano da lontano, quelli della fame, “quelli nemici dell’approdo, dispersione di uomini errabondi”, avevano prolungato si l’attesa, ma che la rovina era ormai consumata.
Cosa avremmo dovuto aspettarci da quelli della cultura non si mangia, da quelli che non bisogna fare gli schizzinosi e accontentarsi del call center, da quelli che l’Aquila è arcaica facciamone una smart city, da quelli che i terremotati devono assicurarsi, i malati guarire o morire, ma secondo un’etica pubblica che ne impone la scadenza come sul latte, gli omosessuali essere puniti per il loro amore e così via.
La bellezza si mangia eccome e quindi la si svende, la si oltraggia, la si offende contando sulla disperazione e sulla fame che accecano, sulle troppo umiliazioni subite da territori e genti più avvilite di altre, a cominciare anche dalla lingua, quella lingua di gentilezza e di fulmini, di Dante, di Petrarca, di Luzi, di Galileo, di Beccarla, di Calamandrei, manomessa, ridotta a gergo da ragionieri, a slides da convention aziendali, in bocca a sobri rivelatisi faccendieri, a professori che hanno saltato le lezioni di educazione civica prima di tutto.
Quando parliamo di bellezza si parla di vecchie virtù: di quel decoro, citato in Costituzione, che non ha nulla di formale e superficiale, ma racconta di sacrifici, compostezza, coerenza, l’aspetto visibile della democrazia, sbeffeggiato da pagliacci in parrucchino, ministri in canottiera, veline al dicastero, ma altrettanto vilipeso dall’affarismo spietato e esplicito di una cricca, dalle guerre ai magistrati, dalle leggi sottoposte a acrobatici aggiustamenti in corso d’opera, da sospetti di assassinio accolti con onori da eroi, ché la patria si risveglia a intermittenza, per i militari e non per i caduti sul lavoro, per i caccia e non per gli ospedali, per tirar su denaro dall’acqua e non per rimettere su le scuole.
Il fenomeno non consiste solo nel tracimare del brutto e dell’osceno, consiste nell’infiltrarsi in tutte le fessure di una ipocrisia che ha molto a che fare con la sopportazione dell’illegalità che diventa acquiescenza.
Un governo che si è mostrato supponentemente inetto, incapace, inadeguato, sleale e codardo cancella lo stillicidio di insuccessi da Wikipedia, l’enciclopedia più amata dagli sfigati, ché anche la rete si deve occupare militarmente con cinguettii, proclami, garbate confessioni, lusinghe, dopo aver occupato le tv. Ma al tempo stesso produce un catalogo dei suoi trionfi sul sito del governo, che è immaginabile diventi poster elettorale, libro strenna dei paschi di Siena dopo i conventi trecenteschi, film per amatori con sceneggiatura scritta da Inchino.
In fatto è che pare faccia parte dell’autobiografia nazionale rinnegare l’insuccesso, spazzarlo sotto il tappeto dell’autoassoluzione, rivestirlo dei panni graditi dell’impopolarità, come se piacere al popolo o fare i suoi interessi fosse un vizio di quella arcaica sinistra che per fortuna non esiste più, e se sussulta allora è meglio tramortirla stiracchiando un po’ di costituzione, silenziando anche chi bela.
Così se a uno va male un giornale, se nessuno va a vedere un suo film, se nessuno compra i suoi quadri, la colpa è del mercato, la stessa divinità idolatrata, che in questo caso non ha indirizzato provvidenzialmente la sua pedagogia, premiando pragmatici dilettanti, improvvisati pionieri, intenti “mettendoci la faccia” con ottime liquidazioni, la fissa, aiuti bancari, a misurarsi con il loro sogno, la loro bella impresa, la loro grande opera, che sia un ponte, una torre, un giornaletto utile a incartare meno di 4000 scarpe. Ma soprattutto dediti a erudirci su cosa è la crescita, la modernità, la libertà d’opinione purché su carta, la letteratura, purché per Mondatori come d’altra parte anche la satira delle comiche sgangherate, l’informazione, purché ben pagata e suon di inserzioni.
C’è però una cosa cui non sono abituati, cui non aspirano e che invece una volta piaceva ai popoli che lottavano per mantenerla e riconquistarla. E sarebbe ora lo facessimo anche noi: si chiama libertà.