"Per quanto ne so, nessun architetto è coinvolto nella progettazione e nella costruzione del muro. Ma questo non significa che il muro non abbia un’architettura. Di fatto, ogni attore impegnato in un’azione costruttiva o d’opposizione riguardante il muro prende parte nella sua creazione, collettiva benché diffusa. Ciò è reso più facile dalla sua “flessibilità”: il progetto, non ancora concluso, è in grado di accogliere nel suo percorso le modifiche derivanti da pressioni politiche."
(Eyal Weizman, “Cosa fare per fermare il muro?”, Domus, aprile 2006, p.8)
…ADESSO CHIUDETE GLI OCCHI… Pensate a quel campetto erboso vicino casa, SI, proprio a quel campetto dove giocavate da piccoli, quello incolto, quello dove di sera ascoltavate i grilli cantare, dove portavate il vostro cane a fare i bisognini, quello da cui guardavate le stelle il 10 agosto, dove in primavera fiorivano i papaveri e quello più bello lo raccoglievate per regalarlo alla fidanzata…SI, quello che adesso ospita quel centro sociale per anziani, o la palazzina di un imprenditore arrembante, o che alla fine è stato recintato e adesso aspetta inerte il suo destino mentre l’incuria lo rinaturalizza e ogni tanto qualcuno scavalca per curiosità o per desiderio di trasgressione…BENE, quel campetto erboso è stato palcoscenico di mille vite, di mille azioni , di mille programmi: è stato usato, danneggiato, ignorato, curato, è stato casa, parco, circo, e forse a volte anche chiesa…e tutto ciò “ACCIDENTALMENTE”, senza nessuna necessità di programmazione o di progetto.
Quel luogo, a prescindere dalle volontà di illuminati pianificatori ha vissuto e VIVE la propria vita autonomamente facendo in modo che ognuno di noi, ogni animale, ogni fenomeno atmosferico, qualsiasi evento perturbativo, lasci la propria traccia, scrivendo e riscrivendo storie ora dopo ora, giorno dopo giorno,anno dopo anno.
Ogni luogo vive così: risentendo di fattori endogeni ed esogeni che lo costringono a cambiare e che poi cambiano nel tempo in modo perpetuo, con maggiore o minore rapidità, a volte in maniera logica e prevedibile, altre in maniera totalmente inattesa.
Ecco, per una progettazione capace di ADATTARSI al cambiamento, per fare in modo che il nostro approccio al luogo non sia coercitivo, è necessario tener conto di tutte le innumerevoli variabili di cui quelle inizialmente citate sono solo la minima parte: “CONTESTO” potrebbe in maniera sintetica tentare di comprendere tutto ciò a cui potremmo riferirci, “HABITAT” forse chiarirebbe meglio che oltre a preesistenze fisiche, funzionali, materiali ne esistono anche di biologiche, ma forse è “SISTEMA” la parola che in maniera più omnicomprensiva rende l’idea della complessità del problema rappresentando potenzialmente l’insieme di stratificazioni architettoniche / fisiche / chimiche / semantiche / biologiche / sociali / politiche / culturali / economiche / simboliche / processuali che un determinato luogo sedimenta nel tempo.
E’ dello studio di questi sistemi che dobbiamo fare tesoro per far si che il progetto possa gestire, non guidare, la trasformazione delle piccole e delle grandi realtà. Il progetto in questo senso non diventa forma di governo ma sorta di PATTEGGIAMENTO tra la logica della pianificazione e la vita vera: un’analisi approfondita ed un dialogo sempre aperto con l’utenza, uno strumento di concertazione e di confronto interdisciplinare, flessibile e sensibile al cambiamento, che sappia prevederlo, conoscerlo, accoglierlo ed infine assecondarlo in modo creativo così da coglierne i migliori spunti per migliorare la vita degli abitanti: ABBIAMO UNA STRATEGIA!
Il progetto è però tutt’altro che risolto: è necessaria una grande conoscenza dei materiali e della tecnologia: “l’età industriale” ha sfornato città zonizzate e programmate a reagire per compartimenti stagni, città governate da standard e da vincoli; in compenso però ha prodotto anche nuovi componenti, stravolgendo completamente il paradigma tecnologico precostituito: oggi possiamo avvalerci di una quantità pressoché sterminata di materiali ed elementi prefabbricati che ci permettono di PENSARE E COSTRUIRE FLESSIBILE. Potremmo banalmente partire dall’impiantistica che può essere gestita con pavimenti galleggianti o essere montata fuori traccia, continuare con elementi costruttivi modulari di nuova generazione dalle sorprendenti prestazioni di resistenza e portanza che per la loro leggerezza possono essere montati e spostati in un attimo, e poi, che dire delle tecnologie digitali? Anche queste ci offrono una gamma infinita di possibilità: la multimedialità, l’informazione, la domotica ci aiutano a gestire le attività ed il rapporto reciproco tra uomo e spazio. Si creano così ulteriori relazioni tra “SPAZIO SENZIENTE”, che cambia a seconda dei comportamenti dell’utenza sempre più eterogenea, e quest’ ultima che abita continuamente i luoghi conformandoli a proprio piacimento, ricevendo nuovi stimoli e crescendo in simbiosi con la città.
Facciamo il punto della situazione: abbiamo un luogo, delle reti di sistemi, un approccio, una strategia, dei materiali di progetto; anche se spesso è possibile cambiare un luogo mediante la sola riorganizzazione sapiente delle attività già presenti ed interpretando i desideri dei frequentatori inserendone eventualmente di nuove, si rivela comunque necessaria una fase OPERATIVA sul campo… MANCA LA COSTRUZIONE!
In effetti spesso pensiamo alla flessibilità come strategia o come qualità di una architettura che è polifunzionale negli obbiettivi e che gestisce gli usi dello spazio (di un medesimo spazio…) nel tempo: la VISIONE è ancora incompleta. Anche la costruzione, la CANTIERIZZAZIONE, intesa nel senso più ampio del termine come ATTUAZIONE del progetto, e la sua organizzazione, sono parti della “voce” flessibilità come PROCESSO: un buon progetto sa tener conto anche delle risorse a disposizione, dei tempi del cambiamento, del fatto che spesso ha bisogno di essere metabolizzato, e delle contingenze / interferenze presenti nell’area durante la realizzazione. Spesso è necessario procedere per lotti autonomi (che nella loro parzialità rispetto all’intero intervento sono in grado di funzionare compiutamente) e consecutivi per la difficile reperibilità di fondi, e non dimentichiamo che il periodo di cantierizzazione può coincidere con eventi improrogabili per quel determinato luogo o per la città circostante ed in questo caso, il progetto va gestito ed adattato di conseguenza senza interrompere l’ordinario svolgersi delle attività elencate nel cronoprogramma. Cantiere e progetto allora concorrono, attraverso steps successivi e propedeutici a raggiungere l’obbiettivo finale della realizzazione ed a volte il confine tra i due non solo è sfumato, ma tende ad un’ amalgama completa.
Flessibilità dunque come approccio, come strumento, come processo: dalla lettura del luogo alla sua costruzione, una costruzione fatta non tanto di elementi finiti, ma di reti e connessioni impalpabili, di vuoti a rendere, di programmi densi di attività, di pause lasciate alla casualità e alla spontaneità di due passanti intenti a giocare con una palla di giornali accartocciati.
In questo modo si riuscirà a superare quelle tipologie architettoniche che,cristallizzate nel tempo per servire modelli di società meno dinamiche di quella contemporanea, presuppongono un totale assoggettamento del cittadino/abitante al progetto per arrivare alle PROTOtipologie, sorta di configurazioni architettoniche STAMINALI capaci di evolversi e trasformarsi a seconda dei desideri ed i bisogni dell’ambiente circostante. L’architettura verrà allora percepita non come contenitore ma come insieme di contenuti, non come confinamento fisico dello spazio, ma come luogo delle idee e della frequentazione libera, dove i programmi funzionali nascono per essere condivisi ed implementati dalla fantasia degli utenti e gli oggetti, come tutte le preesistenze in gioco, vengono risignificati dall’uso e dal tempo per trasformarsi in vere e proprie performances.
BUON LAVORO!