La presenza di argilla sul suolo di Marte, così come di altri minerali idrati, è ampiamete dimostrata dalle recenti missioni con orbiter e rover. Si tratta di minerali alterati dalla presenza di acqua, un’alterazione risalente per lo più al Noachiano, l’epoca più antica della storia marziana, dunque a oltre 3.7 miliardi di anni fa. Ora però uno studio in uscita sul Journal of Geophysical Research: Planets, firmato dai geologi Ralph Milliken e Vivian Sun della Brown University, mostra come questo processo d’alterazione sia stato più comune di quanto non si pensasse anche in tempi più recenti, ovvero nell’arco degli ultimi due miliardi di anni.
Fra i depositi d’argilla rinvenuti fino a oggi su Marte, la parte del leone spetta a terreni che risalgono, appunto, al periodo noachiano. I siti di ritrovamento delle argille, inoltre, tendono a essere collocati attorno e all’interno dei grandi crateri da impatto, dove il materiale è stato scavato in profondità.
L’ipotesi degli scienziati è che le argille presenti nei siti d’impatto si siano formate in epoca noachiana, per poi rimanere sepolte nel corso del tempo, fino a quando l’impatto non le ha riportate in superficie. Una ricostruzione particolarmente appropriata per i depositi d’argilla situati nei picchi centrali dei crateri. I picchi centrali si formano infatti quando, a seguito di un impatto, le rocce che si trovano al di sotto della crosta rimbalzano verso la superficie, facendo affiorare strati sepolti anche a parecchi chilometri di profondità.
Per verificare questa ipotesi, Milliken e Sun hanno analizzato 633 picchi centrali di crateri distribuiti su tutta la superficie di Marte, utilizzando i dati raccolti da due strumenti a bordo del Mars Reconnaissance Orbiter della NASA: CRISM (Compact Reconnaissance Imaging Spectrometer for Mars) e la camera stereo ad alta risoluzione HiRISE. Minerali idrati, la maggior parte dei quali compatibili con le argille, sono risultati presenti in 265 dei 633 picchi. Si tratta di minerali il cui contesto geologico, ricostruito grazie a HiRISE, nel 65 percento dei casi è in effetti compatibile con un substrato roccioso affiorato in superficie.
È però il restante 35 percento – una minoranza piuttosto cospicua – ad aver suscitato l’interesse degli scienziati. Si tratta, hanno riscontrato Milliken e Sun, d’argille presenti in dune, su terreni non consolidati e in altre formazioni geologiche non associate a substrati rocciosi. In altri casi, le argille sono state rinvenute in depositi di roccia fusa dal calore dell’impatto e quindi solidificata di nuovo mano a mano che si raffreddava.
Entrambi questi scenari rimandano a processi di autigenesi, ovvero di formazione sul posto qualche tempo dopo che l’impatto si è verificato, e non di affioramento dal sottosuolo. In alcuni casi, poi, queste argille autigenetiche sono state rinvenute in crateri piuttosto recenti, risalenti agli ultimi due miliardi di anni.
«Questo suggerisce che il processo di formazione delle argille», spiega Milliken, «non sia confinato all’epoca più antica della storia di Marte. Pare che ci siano molti ambienti locali, in questi crateri, dove le argille possono ancora formarsi. E questo potrebbe essere accaduto più spesso di quanto molti di noi immaginassero».
Un meccanismo per la formazione di queste argille potrebbe essere legato al processo d’impatto in sé, dicono i ricercatori. Gli impatti generano calore, e dunque possono portare alla fusione il ghiaccio o i minerali idrati presenti nella crosta circostante. L’acqua liberata potrebbe così filtrare attraverso le rocce e formare le argille. Alcune simulazioni d’impatto suggeriscono che condizioni idrotermali di questo tipo potrebbero persistere anche per migliaia di anni, dando così origine a condizioni di potenziale abitabilità. E questo potrebbe avere implicazioni per la ricerca di prove di vita passata su Marte.
Per saperne di più:
- Leggi su Journal of Geophysical Research: Planets l’articolo “Ancient and recent clay formation on Mars as revealed from a global survey of hydrous minerals in crater central peaks“, di Vivian Z. Sun e Ralph E. Milliken
Fonte: Media INAF | Scritto da Redazione Media Inaf