La birra Argus e l’assenza della Finkbräu in me.
Cosa: Birra
Nome: Argus
Dove: Lidl
Costo: 67 cent per 66 cl
Gradi: 4,7°
Una delle cose che mi mancavano maggiormente di Discount or Die era il fatto di non aver bisogno di una scusa per bere una birra da 66cl alle quattro di pomeriggio. Ci devo scrivere su una recensione, mi dicevo, così che quel proto-alcolismo pomeridiano assumeva quasi una valenza artistica, se non propriamente lavorativa. Alla peggio, ripetevo concessivo tra me e me, resta sempre un hobby migliore di tanti altri hobby. Eludendo l’evidenza che bere birra ha ben poco di hobbistico, ma è pur sempre più divertente che costruire riproduzioni di navi greche antiche con i fiammiferi Minerva.
Tutto questo per dire che, dopo diversi mesi di assenza, ho ripreso in mano la tastiera e mi sono deciso a scrivere una recensione. Una recensione che, per svariati motivi, urgeva dentro di me da diverso tempo. Solo, volendo essere sincero con voi fino in fondo, non avevo la più pallida idea di che birra recensire! Lo ammetto, è strano affermare di avere dentro di sé la recensione di una Birra Ignorante, salvo non avere tra le mani (o sul fegato) la Birra Ignorante in questione. Eppure, amici cari, vi posso giurare che è così. Cristo santo, Andrej, direte, ma come diavolo puoi dire una fregnaccia del genere? Come puoi affermare di avere una recensione senza avere la materia stessa della recensione? Te l’eri sognata, questa birra? L’avevi idealizzata in chissà quale seduta spiritica? Te l’hanno fatta su misura come un completo da matrimonio, oppure, più semplicemente, come Picasso cerchi di venderci Guernica per un’opera anti-bellica, quando in realtà era stata studiata per Joselito, un torero suo amico. Niente di tutto ciò, amici cari, non sono affatto paraculo come il buon Pablo (e, a dirla tutta, ben gli sta a Joselito, morto incornato dal toro che voleva matar!), né aspetto che una tavoletta Ouija mi dica quale tipo di Grafenwalder recensire. No, niente di tutto questo. Quindi, se davvero vi fidate ancora un briciolo di me, nonostante un’assenza degna di un Salinger minore, cercate di seguirmi in questa recensione di una recensione di una Birra Ignorante.
Erano i primi anni del duemila e io non ero nient’altro che un ragazzino iscritto all’università che passava più tempo sulle Birre Ignoranti e sui libri di Roberto Bolaño, piuttosto che sulle esercitazioni e le dispense dei vari prof. Nulla di troppo diverso da ora, direte voi, se non che ho sostituito (causa morte dell’autore ed esaurimento della produzione medesima) Bolaño con Russell Banks e le lezioni universitarie con i turni di lavoro mattutini. Per il resto, Birre Ignoranti comprese, tutto nella norma. Il solo corso che mi interessava davvero (anche se riuscivo lo stesso a dedicarci sufficiente pigrizia) era quello di scrittura creativa: un esamino da pochi crediti dove scrittori apparentemente affermati (sul concetto di “scrittore apparentemente affermato” si potrebbero scrivere recensioni di recensioni di Scrittori Affermati) ci dispensavano dritte sulla realtà letteraria e narrativa italiana e internazionale. Ad essere sinceri non erano nemmeno troppo boriosi, questi professori improvvisati. E dio solo sa se noi, pischelli paraculi convinti di avere il mondo in mano in quanto capaci di creare cicliche allitterazioni tanto allettanti quanto allusivamente arroganti, ce lo saremmo meritato. Oltre alle iniziative di laboratorio (ricordo ancora un testo libero il cui tema era “cosa vedi dalla tua finestra”), vi era un’iniziativa che mi aveva colpito più delle altre, ed era il “Reading del lunedì sera in compagnia dei Realvisceralisti”.
Ora, questi Realvisceralisti erano un gruppo di scrittori che, mutuando il nome dai protagonisti dei Detective Selvaggi di Bolaño, avevano deciso di presentare spezzoni delle loro future opere di fronte a una platea. Va subito detto che, di questi italici Realvisceralisti, molti hanno ottenuto risultati di primissimo riguardo nel panorama letterario italiano. Quindi l’interesse stava tutto nel vedere come i futuri enfant prodige della narrativa italiana se la cavavano su un palco. Ricordo che andavo a queste letture con una cassa di Finkbräu, un paio di canne e un vecchio amico di cui ho perso i contatti da svariati anni. Arrivavamo per ultimi, dopo aver sbevazzato in piazza, e ci sistemavamo immancabilmente in ultima fila, ma in religioso silenzio. Le letture si tenevano in un cinema di terz’ordine ricavato da una chiesa sconsacrata di quart’ordine. Per intenderci, le poltroncine foderate di rosso bordeaux avevano un assurdo odore di incenso e sudore, e sembravano aver vissuto periodi decisamente più fasti. Così come il palco e i microfoni. O le casse, che emanavano un ronzio continuo e assordante. In ogni caso era impossibile decifrare se i periodi fausti erano stati quelli in cui lo stabile era adibito a cinema o quelli in cui fungeva da chiesa sconsacrata. Noi andavamo a quei reading soltanto per vedere colui che, ai nostri occhi, rappresentava la più grande promessa della scrittura italiana degli anni zero: un ragazzo sulla trentina con qualche problema di alcol di troppo che frequentava la nostra facoltà e che, in modo quasi assurdo, era riuscito a scrivere e a farsi pubblicare un romanzo presso una casa editrice (ora fallita) di cui tutti dicevano un gran bene. Se della casa editrice si diceva un gran bene, del romanzo ancor di più. E lo si paragonava a opere di autori americani che, nel nostro immaginario, erano nell’empireo della letteratura mondiale. Ciò che ci colpiva di questo ragazzo era principalmente il fatto che era uno di noi. Uno che, seppur più grande di una decina d’anni, aveva lottato per il suo sogno di scrittore e, con fatica, dedizione, deliri, Birre Ignoranti e dio solo sa cos’altro, era riuscito a pubblicare il suo romanzo. E senza conoscenze di sorta. Soprattutto era riuscito a pubblicare un gran romanzo di cui, stranamente, pochissime persone parlavano. Noi, però, non eravamo tra questi e, in un certo qual modo, eravamo suoi fan accaniti. E lo eravamo disincantatamente. Senza la solita boria delle lezioni di scrittura creativa. Quest’autore era il nostro autore, e noi ci imbucavamo ai reading dei Realvisceralisti solo per ascoltare lui.
Là dove tutti si presentavano bardati nell’abito di scrittore (che è un abito virtuale piuttosto che fisico), lui capitava arrangiato come se avesse appena smesso di bere assieme a noi (cosa improbabile, visto che eravamo sempre in ritardo) e si fosse ficcato addosso il primo maglione trovato nell’armadio e il secondo paio di jeans (causa macchie sul jeans precedente). La prima lettura che fece non colpì nessuno. Si presentò con un breve testo di carattere filosofico, senza però scalfire l’indifferenza del pubblico né la claque di altri scrittori più blasonati che contavano i minuti per sentir parlare i loro beniamini. Io e il mio amico ce ne stavamo in ultima fila a soppesare ogni parola, in attesa del carico da novanta. Come quando vai al concerto di un gruppo indie e non vedi l’ora che finisca tutta quella melassa indie per lasciare spazio a qualcosa di significativo e punk, ma no! Perché la prima regola della melassa indie e che la melassa indie non finisce mai. Alla peggio si trasforma in pop d’autore, ma questo è un altro discorso. Insomma, la prima serata del “nostro” finì con un buco nell’acqua e io e il mio amico affogammo il dispiacere in una salvifica cassa di Finkbräu.
Una settimana dopo, stesso reading, stesso cinema di terz’ordine, stessi Realvisceralisti. Stesso ritardo, per noi. Stesso maglione, per lui. Lo piazzarono tra gli ultimi deputati a leggere, e non so se ciò fosse dovuto alla scarsa perfomance della volta precedente o se fosse stato lui stesso a voler (simbolicamente) chiudere il cerchio nelle ultime fila. Diverse università statunitensi hanno stabilito che, dopo un’ora di reading (a meno che ciò non avvenga nel corso di festival letterari, ovvero dove il reading, essendo fattore accessorio, passa in secondo piano), la soglia di attenzione dello spettatore medio è a livello “bradipo tendente al suicidio”. Tuttavia il nostro sembrava pronto a sfatare tale assioma, e si presentò sul palco quando le palpebre dell’uditorio si trovavano a lottare contro la legge di gravità e gli sbadigli del medesimo contro le leggi del buon decoro. Insomma, si prospettava un altro buco nell’acqua. Io e il mio amico ci buttammo in gola un sorso di Finkbräu tiepida come il pubblico e incrociammo le dita.
Ecco, non so dirvi cosa successe quella sera. Non so cosa successe a lui, o al pubblico in quella sala-cinema di terza categoria. Ricordo perfettamente il testo che lesse. Le assonanze che presentò. Le ripetizioni studiate, le descrizioni che colpivano come un montante allo stomaco. Ricordo gli occhi dei “colleghi” Realvisceralisti, così come i suoi, calati su un foglio spiegazzato e madido di saliva, adagiato a terra per permettergli di leggere ancor più vicino al pubblico. Ricordo ogni cosa, ma questo pezzo non è la recensione della recensioni di un reading, bensì di una Birra Ignorante, quindi inutile dire di cosa parlava quel testo. Il più giovane scrittore emergente che avessi mai conosciuto colpì tutti dritto al cuore. Il pubblico applaudì frastornato, come se avesse assistito a qualcosa di unico e quindi non sapesse se complimentarsi o restare muto, consapevole del rischio di infrangere un momento del genere. Io e il mio amico, invece, non avemmo alcun dubbio: uscimmo dalla sala il religioso silenzio e ci fermammo nel vialetto antistante l’uscita per lasciare che quanto avevamo appena sentito sedimentasse pacificamente in noi. Aprimmo due birre e, dopo poche sorsate, vedemmo uscire, quasi di soppiatto, lo scrittore che aveva appena letto: la grande promessa della scrittura italiana di quei maldestri anni zero. Uscì di soppiatto, appunto, con i fogli che aveva appena letto infilati alla meno peggio in una cartellina di finta pelle. Il maglione spiegazzato, i jeans sdruciti. L’aria, in sé, di uno che aveva certamente visto giorni migliori ma, allo stesso, molti giorni ben peggiori. Gli offrimmo un goccio di Finkbräu. Lui, dopo un iniziale rifiuto, accettò. Bevve in pochi, frettolosi, sorsi. Come chi ha fretta. O, semplicemente, poca voglia di dilungarsi in chiacchiere. Salutò con un sorriso timido e discreto, e sparì in quella notte autunnale che ci aveva visto partecipi della sua definitiva consacrazione nel pressoché irrilevante panorama dei nostri scrittori preferiti.
L’università finì e, come tutte le “infatuazioni” letterarie, anche quella per la nostra giovane promessa si affievolì. Si affievolì, però, non perché ci rendemmo conto di aver preso una topica, bensì perché il più grande giovane scrittore degli anni zero smise di scrivere. Dopo quel folgorante (magari non in termini di vendite) romanzo, di lui non uscì più nulla. Lo seguii per un po’ su un suo blog personale, che chiuse dopo alcuni anni. Poi su twitter, ma non durò molto nemmeno lì. Lo vidi in occasione di un reading a cui ebbi la disgraziata e impertinente idea di invitarlo. Passò a salutarmi e fu gentile e discreto come al solito. Aveva un compagna, ma nessun maglione spiegazzato o jeans sdrucito. Parlava sempre molto lentamente, osservando l’ambiente piuttosto che monopolizzando l’attenzione. Con quella sua timidezza estrinseca che assomigliava più a un dono che a un difetto. Parlammo di qualche amico in comune. Gli chiesi se avesse in cantiere qualche nuovo romanzo, o raccolta di racconti, o dio solo sa cosa. Disse che non aveva niente per le mani, che continuava sì a scrivere, ma che non aveva niente di pronto. Questo accadde poco più di cinque anni fa e, da quell’incontro, seguendo le sue vicissitudini per vie sempre più traverse e indirette, non risulta abbia pubblicato nulla di nuovo. Un po’ come il vecchio J. D. Salinger. Con la differenza, però, che Salinger non faceva reading. E, se anche li avesse fatti, di certo non sarebbero stati così profondi come quelli della nostra grande, giovane, promessa.
L’altro giorno, quindi, dopo mesi e mesi di salingeriana astinenza dallo scrivere recensioni per Discount or Die, sono entrato alla LIDL, immaginando che avrei di certo trovato la “Birra Ignorante” capace di darmi il la in questo mio periglioso periplo narrativo. Mi sono diretto allo scaffale deputato alle birre e, dopo aver oltrepassato la coltre farinacea della nuova sezione “sforniamo pane tutto il giorno” (prometto che prima o poi scriverò un articolo sull’assurdità che un discount faccia del pane precotto chissà dove, surgelato, e poi ricotto, un “cavallo di battaglia” in quello che, per tradizione, è un paese di ottimi ed economici panificatori…), ho raggiunto quello che ricordavo come un Paradiso Promesso. Un Eden di birre a poco prezzo, numerose per tipologia e varietà. Beh, amici cari, devo dire che la delusione fu grande. Non tanto per la scarsezza di new-entry sostanziali (e sostanziose) o per la presenza di birre che, per quanto buone, non hanno nulla a che vedere con la filosofia Birrignorantesca (qualcuno ha detto Arcana?), bensì per una precipua, significativa, assenza. Assenza che, nel suo essere assordante, mi urlava di tempi passati. Di birre consumate al di fuori di vecchi teatri ora adibiti a cinema dopo essere stati chiese sconsacrate. Di incontri con scrittori salingeriani di cui non avevo notizie da diversi anni. Di amici con cui ho passato gran parte dei miei anni universitari e che ora mi appaiono estranei come i controlli qualità nei discount bengalesi. Di libri letti e dimenticati. Di dimenticanze scritte sul corpo e ora appassite come tatuaggi a penna biro, o ritratti a Caran d’Ache lavati via da lacrime e sudore. Di momenti, insomma, formativi come guerre interiori. E parimenti banali e parimenti superati. Tutto questo, però, per dire che sì, che al LIDL, tra tante, sovrabbondantemente inutili Birre fu-Ignoranti, era sparita la birra più ignorante di tutte. La ur-Birra Ignorante: la Finkbräu da 66 cl in tozza bottiglia di vetro. Il cavaliere nero su sfondo verde, insomma, non batteva più i prati del discount dal logo gialloblu.
Non so, amici cari, se è capitato anche a voi, però ora, al posto della Finkbräu da 66 cl (la versione in lattina, se non erro, è rimasta) vi è la birra “Argus”. Stessa (tozza) bottiglia di vetro marrone. Stesso grado etilico (4,7°), stesso prezzo (67 centesimi circa), stesso birrificio di produzione (San Giorgio di Nogaro), stessa bevibilità. Solo, niente più Finkbräu. Niente più cavaliere nero. Niente più prati verde-scuro a solcare l’etichetta stampata alla meno peggio con qualche marcissimo font recuperato sabotando chissà quale copyright. La birra Argus, infatti, ha una misera scritta bianca su sfondo rosso. Due leoni alati che reggono uno stemma, la scritta “premium” messa più a riempire vuoti tipografici che altro, e una sorta di mulino a vento da cui si dipanano due infiorescenze che più che provenire da luppolo, malto o granturco, sembrano la sbiadita imitazione di quelle palme da appartamento anni ’90 che, unite al trita documenti, elettrico facevano molto ufficio di imprenditore implicato con Tangentopoli. Ma questo, si sa, è uno sproloquio dettato dalla delusione. Nella mia personale classifica delle etichette ignoranti delle birre ignoranti, la Argus supera di poco la Kralle. E questo è tutto un dire.
La birra, di per sé, non è nemmeno cattiva. Dubito che sia stata cambiata la ricetta e, nel berla alle quattro del pomeriggio, mi ha riportato alla mente le giornate in cui saltavo la lezione di glottologia per cercare di dare una forma più interessante a “ciò che vedevo dalla mia finestra” (universitaria). Che poi non era nient’altro che un campo da tennis allo sfascio, un oratorio e due file di siepi in cui i pusher del quartiere nascondevano il fumo. Insomma, niente da obiettare sulla Argus in sé. Ciò che mi ha sconvolto è stata l’assenza della Finkbräu in me. Soprattutto, nel “me” contemporaneo, così diverso dal “me” degli anni universitari e, allo stesso tempo, decisamente anti-nostalgico. Incuriosito dalla parola argus e convinto (forse dalla terza Argus da 66cl bevuta nel corso del pomeriggio: dopotutto ci vuole del tempo per scrivere la recensione di una recensione di una Birra Ignorante) che, in fondo, ci fosse un senso logico a tutto ciò, ho cercato nel mio vecchio dizionario latino (quello in cui scrivevo le declinazioni a matita, ché dopo la seconda declinazione la memoria interna del mio cervelletto era ben colma) il significato della parola medesima. Argus vuol dire “di Argo” e, nella fattispecie, sembra riferirsi alla nave Argo. La nave di Giasone e degli Argonauti: i cinquanta eroi che andarono alla ricerca del mitologico “vello d’oro”. Tralasciando la storia delle peregrinazioni degli Argonauti attraverso il Mediterraneo, nonché le vicende coniugali di Giasone e Medea, credo che la parola argus renda perfettamente l’idea del periplo di vicende che questa birra porta con sé. Il susseguirsi di ricordi e cambiamenti. Il momento in cui le cose, pur restando identiche nella sostanza, si sono trasformate in qualcosa di completamente diverso. In qualcosa di assolutamente imponderabile e, allo stesso tempo, conosciuto. Come la certezza di un passato “pacificato”, che tale non è nell’attimo stesso di ricordarlo. E, intendiamoci, pacificato non vuol dire privo di conflitti. Bensì stabile. Assodato. Immoto. Perché di immoto il passato ha solo il ricordo immediato, e ogni volta che lo si afferra in mano, ad anni o decenni di distanza, si deve essere pronti a vivere il viaggio degli Argonauti. Quello, cioè, alla ricerca dei fili tessuti che, nell’azione di essere riavvolti, si dipanano come nuove composizioni. Nuovi incroci di telaio dove il passato non è e non sarà mai disgiunto dal presente. Dalla sua rilettura, nemmeno troppo forzata.
La grande promessa della letteratura italiana degli anni zero non sa che sto scrivendo di lui. Non credo lo saprà mai. Non credo nemmeno che, nel suo salingeriano isolamento, sia interessato a tutto ciò. Tra le varie domande che mi sono posto su di lui, dubito che la più importante sia “scriverà ancora”. O “quando lo farà”. O, forse, “come lo farà”. La più importante, ora come ora, Argus dopo Argus, è se davvero si ricorda di quei ragazzini che, dopo il suo primo, fallimentare reading, tornarono ad ascoltarlo, e uscirono da quella scala sconvolti come dopo una tempesta, offrendogli una Finkbräu tiepida per placare la frenesia piuttosto che la sete. No, nemmeno questa è la domanda più importante. Forse la domanda più importante è se, nella sua mente, tra i romanzi che scriverà o quelli che ha già scritto, tra i deliri che lo attanagliano e quelli cui darà forma, la domanda più importante, dicevo, è se si ricorderà del tema “filosofico” di quel suo primo, fallimentare reading.
Perché io lo ricordo benissimo.
Lo ricordo come fosse ora.
Anche se mi annoiò da morire.
Anche se lo ritenni prolisso e privo di verve.
Eppure, in questo istante, nel bere l’ennesima Argus Ignorante, mi sento di averlo compreso alla perfezione.
Di averlo imparato a memoria senza mai averlo letto.
Il passato è la somma dei futuri che ci siamo negati. Frammento dopo frammento. Privazione dopo privazione.Esclusione dopo esclusione.
Da una somma di vuoti così tangibili, passo dopo passo, non si potrebbe mai immaginare nasca una consapevolezza tanto grande e tanto tangibile. Fisica, quasi.
Invece è così. È dannatamente così.
La grande promessa della letteratura italiana degli anni zero, il Salinger dei nostri deliri universitari, lo sapeva. E lo sapeva un decennio fa.
Nel telaio dei miei ricordi, è stato il periplo con la nave Argo a farmelo ricordare.
Γεια μας!