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Aria nuova in convento

Creato il 16 giugno 2010 da Renzomazzetti
Picasso:Guernica,1937 (parte)

Picasso:Guernica,1937 (parte)

Il convento ospitava una scuola media, ma le scolare erano tutte a casa per le loro vacanze estive quando la rivolta scoppiò, e le monache erano fuggite. Mentre eravamo ferme, un po’ esitanti, di fronte alla porta del convento, improvvisamente fummo circondate da tutto il vicinato. La gente sbucava dalle porte e dalle finestre e una dozzina di donne venne fuori trotterellando da quel gruppo di case per venirci a parlare. Perché le monache sono andate via? Sono state minacciate? Domandai. Una donna alta e grossa, dalla faccia simpatica, vestita di un chimono di cotone, ridacchiò. Oh, no, companera, disse non è successo nulla; nessuno ha chiesto a loro di andarsene. Ma hanno sentito delle voci dai loro amici e parenti, e il loro cappellano ha detto loro di andarsene. Che cosa siete venute a fare qui? Gridò una donna dalla finestra. Forse siete imparentate con le suore? Forse siete venute a prendervi quello che c’è dentro al convento? Un uomo dalla strada, da parte sua gridò: Ora è tutto del governo, qui. Non toccate! Ridemmo. Il miliziano ci fece conoscere a tutta la gente del casamento. Le donne cominciarono tutte a chiacchierare. Volete dire che venite per occuparvi dei bambini senza essere pagate? Disse una. Io posso mandare i miei due bambini che mi fanno diventar pazza e passano tutto il giorno a giocare nel fango? Aggiunse un’altra. Le ragazze che andavano a questa scuola pagavano la loro retta; non era una scuola per i poveri. Farete pagare, ora? Continuò una terza. E poi tutte presero a dire: Noi vi verremo ad aiutare. Chiamateci, se avete bisogno di noi. Quando dicemmo che speravamo che i nostri nuovi alunni avrebbero giocato coi ragazzi, diventammo amiche dell’intero vicinato. Non potevano credere che il convento, per tanto tempo isolato da tutto, stesse per diventare una parte viva di quel blocco di case, una parte della loro vita. Sempre, da quel giorno in poi, non facemmo in tempo a comparire presso la porta che ricevevamo una salve di salud! e cenni amichevoli e sorrisi. Il miliziano trovò la chiave ed entrammo nell’atrio del vecchio convento. Dopo che le monache si erano allontanate, il locale era stato perquisito per vedere se vi fossero armi. Nell’atrio c’erano quattro brutti cassettoni con i tiretti tutti aperti, e il contenuto sparso sul pavimento: per la maggior parte giornali cattolici, stracci, fili per luce elettrica e infissi. Passammo oltre e trovammo che l’edificio era molto vasto, ma arredato all’antica e in rovina. La cucina offriva un quadro desolante. Le monache, tra l’altro, avevano lasciato gli avanzi del loro ultimo pasto e tre giorni del caldo soffocante di luglio erano bastati a far fermentare il cibo rimasto nei piatti sporchi. Inoltre l’ammattonato rosso della cucina e della vicina dispensa era letteralmente tappezzato di scarafaggi. Guardai in faccia le mie amiche. Mi sentivo impallidire alla vista degli scarafaggi che si muovevano sopra uno spesso muro verso l’angolo presso il quale noi ci trovavamo. Non siamo mogli di eroi? disse Maruja, debolmente. E allora, messe di buonumore, cominciammo a lavorare. Per prima cosa dovevamo assegnare i compiti. Due dovevano occuparsi della cucina, altre due della pulizia della casa. Io fui eletta directora: dovevo tenere i conti , ordinare i cibi, trovare i vestiti per i bambini e organizzare le lezioni, i bagni e le passeggiate. Ma tutte queste incombenze si accumularono con l’andar del tempo, molto più tardi. Quel giorno noi dovevamo spazzare i pavimenti, portare via gli stracci e il sudiciume che trovavamo in tutto l’edificio e preparare un po’ da mangiare e da dormire per i bambini che sarebbero arrivati la notte stessa. Dopo un’ora da che eravamo all’interno dell’edificio, arrivò il nostro capo-ufficio. Potete dar da mangiare ai bambini questa sera prima di metterli a letto? ci domandò. Per rispondere a questa domanda si doveva consultare Maruja e Teresa: essi si mostrarono molto riluttanti a far delle promesse, poiché avevano trovato la cucina in condizioni molto peggiori di quel che si aspettavano. Il camino aveva bisogno di essere pulito prima che vi si potesse accendere il fuoco: occorreva raschiare addirittura con il coltello piatti, stoviglie e casseruole della cucina, prima che acqua e sapone potessero essere di qualche utilità. Inoltre le nostre cuoche non volevano scarafaggi neri tutt’intorno mentre cucinavano: per questo avevamo già ordinato certa polvere da spargere sul pavimento; infine ci sarebbe voluto più di un’ora per spazzare e pulire bene la stanza. Tuttavia, quando sentirono che i bambini non avevano mangiato un vero e proprio pasto da circa una settimana, cioè dal giorno in cui le monache li avevano portati giù nella cappella a pregare per la vittoria degli uomini della provvidenza (questo era infatti il nome dato dalle monache ai generali ribelli), Maruja e Teresa dimenticarono tutte le loro obiezioni. C’erano molti letti nel convento e scoprimmo ben presto che avremmo potuto alloggiare fino ad ottanta bambini. Quella prima sera arrivarono cinquanta bambine. Il primo gruppo di venti giunse in un grosso autobus e fu accompagnato dentro da un funzionario della direzione dell’Istituto, che era andato a prenderle in un convento nei sobborghi di Madrid, dove le bimbe avevano passato la maggior parte della loro vita. All’arrivo molte di loro avevano un’aria spaventatissima: alcune piangevano silenziosamente e una ragazza più grande, di circa diciassette anni, strillava in preda a una crisi isterica. Tutte indossavano vesti sudice, di una flanella nera di cattiva qualità, tagliate senza grazia, con gonne e maniche lunghe. I loro volti recavano i segni dell’insonnia, del pianto e della sporcizia; i loro capelli, sui quali da tempo non era passato un pettine, erano arruffati, sporchi, e senza colore preciso. Ciascuna delle ragazze portava sulla spalla una borsa di tela bianca contenente pochi miserabili oggetti personali. Si muovevano istintivamente e incoerentemente come pecore, e parlavano tre di loro concitatamente, ma sottovoce, in tono bassissimo. Sentii che gli occhi mi si riempivano di pianto. Non avevo mai visto uno spettacolo così pietoso come quel primo gruppo di nostri bambini. Ma non c’era tempo per essere sentimentali. Se dovevamo tranquillizzare tutte quelle piccole e frenare i loro accessi isterici, dovevamo accostarci a loro con naturalezza, per dar loro l’impressione che ciò che accadeva era tutto assolutamente normale. Le conducemmo dall’atrio in uno dei parlatori che doveva essere stato usato dalle monache per ricevere i visitatori più importanti. Era una sala grande, quadrata, con due file di scomodi divani dalla spalliera dura e di sedie dalle gambe sottili, la tappezzeria di un colore indefinibile, un tavolo rotondo a tre gambe coperto da una tovaglia pure rotonda, ricamata a mano, in mezzo alla quale si ergeva una pianta ròsa dai parassiti. Due grandi scene della passione di Cristo stavano appese al muro, l’una di fronte all’altra. Le bambine erano naturalmente intimidite dal fatto che si trovavano in un luogo così sontuoso. Dovevo dir loro poche parole. Nessuna delle mie compagne voleva parlare: Toccava a me, dicevano; non mi avevano infatti eletta proprio allora directora? Con un nodo in gola, e cercando in tutti i modi di sorridere e di trattenere il meglio che potevo le lacrime inopportune, cominciai: Spero che voi sarete felici qui con noi, e non c’è nessun bisogno di parlare così a voce bassa, perché noi non abbiamo paura di sentirvi parlare o ridere. Oh, speriamo che presto riderete e giocherete! Altre bambine verranno domani, e voi potete lasciare le vostre borse in questa stanza per ora, fintanto che non andrete a letto questa sera. Ora potete tutte lavarvi le mani. E poi avremo qualche cosa per cena. Le bambine apparvero meravigliate. Tre o quattro delle più audaci cominciarono a porre delle timide domande. Dobbiamo vivere sempre qui, ora? Allora non è vero quello che dicevano le suore… Una ragazzina cominciò a gridare: Non dite quello che hanno detto le suore. Non diteglielo! Ma un coro di voci rispose. Le suore ci hanno detto che voi sareste stati molto crudeli con noi, ci avreste picchiato e ci hanno detto che i milicianos ci avrebbero violentato. La brutta parola suonò strana e orribile in bocca a quelle bambine, la maggior parte delle quali non aveva toccato i dodici anni. Questo spiegava l’isterismo della ragazza più grande, la povera Ana Maria, che Concha Prieto cercava di calmare nel parlatorio vicino. Le suore erano scappate lasciando le bambine senza cibo né protezione, ma con l’avvertimento finale che entro pochi giorni esse sarebbero state maltrattate e seviziate dalla gente miserabile del Fronte popolare. Sentimmo dentro di noi un’ondata improvvisa di sdegno… Anche se quelle suore avessero creduto a così ridicole storie, certo non dovevano abbandonare quelle piccole, sole, in preda al terrore… -Costancia de la Mora, morta esule in Messico nel 1949, brano tratto dal suo romanzo Gloriosa Spagna.

IL GENERALE FRANCO ALL’INFERNO (frammento)

ARIA NUOVA IN CONVENTO

Maledetto, ciò che è umano ti perseguiti.

Non devi bruciare nel fuoco delle cose,

non devi perderti nella scala del tempo,

il vetro ardente e la schiuma feroce

non devono disperderti ai quattro venti.

Solo, solo devi restare tra le lacrime,

in una eternità di mani morte e d’occhi spenti,

solo in una caverna dell’inferno,

in un’eternità maledetta e solitaria

devi mangiare in silenzio putredine e sangue.

Anche se hai gli occhi forati da aghi

non meriti di dormire: sveglio,

devi restare sveglio, Generale,

nella terra delle giovani spose

mitragliate in autunno.

Tutti i bambini squartati e frantumati,

nel tuo inferno aspettano questo giorno

di gelida festa: il tuo arrivo.

Bambini anneriti dalle esplosioni,

rossi frammenti di membra, corridoi

di tenere viscere, tutti ti aspettano,

come se fossero ancora vivi, come se ancora

dovessero attraversare la via, giocare a palla,

mangiare un frutto, nascere e sorridere.

Sorridere! Vi sono sorrisi cancellati

dal sangue, che aspettano coi denti fracassati.

E maschere stravolte, volti cavi

di polvere e fantasmi. Sono morti

celati e oscuri, che non escon mai

dal letto di macerie. T’aspettano

per passare la notte; affollano i corridoi

come alghe corrotte.

Sono nostri! La nostra carne sono stati,

e la salute, la pace, il nostro oceano

d’aria e polmoni! Fiorivano per essi

le terre arse; ora, più lontano della terra,

sono sostanza distrutta, materia assassinata.

E ti aspettano

nel tuo inferno.

Poiché la paura e il dolore hanno una fine,

non t’aspettano dolore o paura.

Resterai solo e maledetto ad occhi aperti

fra questi morti, il loro sangue

ti cadrà addosso come pioggia; un lento fiume

d’occhi lacerati t’inghiottirà,

e ti fisserà per sempre.

-Pablo Neruda-

 


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