Arma impropria: L’isola che c’è

Da Maurizio Lorenzi

Il mio editoriale pubblicato sulla rivista Araberara del 13.09.2013. Buona lettura.

L’isola che c’è

Lo so amici. D’estate viene voglia di vacanza, che tradotto in soldoni, si chiama sole e mare. Si tratta di un connubio irresistibile che non teme confronti e nemmeno concorrenza. Quindi, chiunque di voi sia all’ombra di un ombrellone o beatamente immerso in acque cristalline, al sapore di salsedine, si goda il momento. Per tutti gli altri che invece, per diversi motivi, sono bloccati a casa, tra le lande della pianura padana, meglio fare di necessità virtù. Per ricaricare le batterie e ritemprare il buon umore, consiglio di aggrapparsi ai sogni oppure ai ricordi più cari.

Oggi ve ne racconto uno dei miei, risalente a poche estati fa.

Desiderio di libertà. Uno sguardo sul web, una rapida prenotazione, una sbirciatina alla mappa e ruppi gli indugi. Decisi di partire, così, su due piedi, in solitaria. Borsone in spalla e zaino per le provviste. Destinazione faro di Porer, sulla punta meridionale dell’Istria. Era una mattina di fine agosto e mi piazzai al volante, entrando nella mia personale fase “REM” a occhi aperti. In questo modo, riesco anche a fare centinaia di chilometri senza che la cosa mi pesi perché mentre guido, penso. Ho sempre avuto questo vizio. Solo che quando non guido non penso e quando penso guido. Per cui per ragionare spendo molto, soprattutto in termini di benzina. Se è vero che pensare costa, a me pensare costa molto. Anche e soprattutto economicamente.

In un battibaleno arrivai a Trieste e varcai il confine. Due ore dopo giunsi a Premantura, vicino a Pola. Lì avevo appuntamento con Ivan, un pescatore della zona che mi avrebbe portato sull’isola di Porer. Durante la navigazione mi spiegò che il faro fu costruito nel 1833, per evitare che le navi si incagliassero nelle numerose secche che c’erano nella zona. Era chiamato contemporaneamente “la porta del paradiso e la porta dell’inferno”. Dipendeva dal tempo. Se le condizioni atmosferiche erano buone, era un paradiso. Se invece erano pessime, diventava la porta per l’inferno. Sul faro c’era un custode che però spesso faceva ritorno a terra per fare delle commissioni e quasi mai dormiva sull’isola. Dopo una breve attraversata, mi lasciò con una vigorosa stretta di mano, con l’impegno di venirmi a riprendere cinque giorni più tardi.

Frammenti di ammaraggio. Era il mio turno di calpestare l’isola che non c’è, ed ero felice di farlo. Appena ci misi piede, respirai subito aria di casa e sistemai le mie cose dentro l”appartamento che avevo prenotato. Era fatto di mura spesse, concepite per resistere ai venti più sferzanti del mar Adriatico. C’era anche la televisione ma ricordo che non l’accesi mai. Ricordo invece che tutto ciò che vedevo e cercavo di annusare era contaminato dal mare. Come il primo tramonto, per esempio, che mi trafisse l’anima. Per riuscire a non perdermelo, corsi lungo il perimetro dello scoglio, per indovinare la visuale migliore. Misurai con i passi gli 80 metri quadrati della roccia tagliente, ammorbidita qua e là dal cemento che rivestiva la parte dove era stata eretta la struttura che ospitava la torre del faro. Assaggiai una brezza di cui ancora non conoscevo il nome e ripensai alle parole del pescatore: “qui il vento c’è sempre e prima o poi, ci si abitua anche a questo”. Osservando l’orizzonte, le onde del mare sembravano minacciare la mia incolumità. Era solo un’impressione, certo, ma per uno abituato ai casoncelli e alle Prealpi Orobiche, sentirsi addosso tutta quell’aria e guardare un imponente massa d’acqua che tirava dritta verso di me, non era una cosa poi così naturale. E poi altri dettagli indelebili. Una nave mercantile ancorata al largo, immobile come un fermo immagine. I gabbiani bianchi e grigi che si muovevano con garbo in attesa dell’imbrunire che, da quelle parti, era solo l’aperitivo della notte. I colori che rievocavano un caleidoscopio che si andava gradualmente spegnendo.

Iniziò tutto con pacatezza. Il tramonto mi accarezzò gli occhi, il vento le spalle, le nuvole mi presero la mano mentre il mio cuore lasciava fare, battendo un colpo, anzi, battendone altri, in segno di approvazione. Chiusi gli occhi e vissi con il mare Adriatico un istante che si sarebbe magicamente moltiplicato, divenendo poi parte della mia memoria. Mentre i sole scompariva all’orizzonte, salii le scale della torre, per raggiungere il cuore pulsante del faro, dove la luce si propagava per miglia e miglia. Una scala a chiocciola in cemento si snodava in una spirale dal diametro di tre metri. Contai gradino dopo gradino e arrivai a 125. Da qui in poi il colore delle scale mutava da grigio in rosso. Altri 14 gradini rossastri e fui nella torretta dove c’era la base rotatoria delle lenti. Mi arrampicai sopra una piccola scaletta di 10 pioli, probabilmente creata per i sette nani, ne affrontai un’altra di 8 e mi ritrovai nella torre vetrata. Era già illuminata.

Fuori non era ancora completamente buio e sullo sfondo si potevano cogliere piccoli segnali di luce, il canto del cigno della giornata. Mi sistemai nel piccolo passaggio circolare che cingeva il groviglio di lenti, progettate quasi due secoli fa da Augustine Fresnel, la cui profondità visiva era di 17 miglia. Circa 30 km. Sbalorditivo. Ricordo che mi sembrò di vivere all’interno di un videogioco, in cui mi muovevo lontano da ogni sintomo di realtà.

La voce del silenzio. Quando fuori si era fatto buio, scesi lentamente i 139 scalini della torre. Mi girava un po’ la testa e avevo i brividi. Corsi indossare un maglione a collo alto e mi sedetti sopra il muretto di pietre che cingeva il piccolo molo. La Bora si faceva sentire, ma tutto intorno lo spettacolo era mozzafiato.

Fu come non avrei mai potuto immaginare. Da fuori, la torre con la testa luminosa era stupenda. Si muoveva con la grazia di chi sapeva di essere indispensabile, ma non per questo se la tirava. Vista da lì, sembrava un enorme giocattolo destinato a durare per l’eternità. Più la osservavo e più mi sembrava che in quel frangente non ci fossero le proporzioni adeguate. Io recitavo la parte dell’omino in miniatura. Il faro quella della costruzione gigante, a sua volta esile minuzia qualora rapportata all’immenso mondo marino. Nel cuore della notte, rientrai nell’appartamento. Mi era venuta fame ma anche voglia di scrivere. Allora presi il pc, mi piazzai davanti alla finestra e la spalancai. Iniziai ad ascoltare la voce del mare e quella del vento. Fu come vivere un sogno. Il mare eseguiva la sua danza perenne, fatta di sibili sottili e straordinari sciabordii. Nel cielo, la luna lo accarezzava con sorrisi celati e luminosità variabile. La voce del mare e l’energia della luna. Erano serviti solo un pizzico di concentrazione e uno spruzzo di fantasia per coglierli. Da quel momento, decisi di lasciare la finestra aperta, anche la notte, per non farmi mai mancare la percezione del respiro marino.

Lo so amici. D’estate viene voglia di vacanza, che tradotto in soldoni, si chiama sole e mare. Aggiungiamoci anche la voglia di sognare. A volte, per farlo, basta chiudere gli occhi. E vedrete che il mondo, come per incanto, sembrerà migliore.

   MaLo


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :