“Una terra che muore”, cronaca di un’ordinaria giornata di inquinamento ambientale, il mio articolo pubblicato sul bisettimanale Araberara del 12.07.2013, tratto dalla mia rubrica “Arma impropria“.
Una terra che muore
Siamo in periferia, ma l’odore ti assale forte e deciso. Un olezzo strano che si insinua dentro le narici, appena lo si percepisce. Sarà strano ma sembra diventare immediatamente normalità. Le strade a tratti sono desolanti, all’interno di quartieri che non sembrano avere confini. Case dai colori marcati appoggiate l’una all’altra con poco garbo e molta fretta. Alle spalle dell’abitato s’intuisce il mare e alla nostra sinistra il polo petrolifero. Ci addentriamo verso il centro e seguiamo la strada principale che si inerpica verso l’alto. La frenesia si incanala meno frenetica mentre i contrasti architettonici si mescolano a palazzi d’epoca barocca e rinascimentale. Adesso la puzza sembra quasi scomparsa ma forse è solo assuefazione. Nella parte alta della città è il caldo a farla da padrone. Il traffico pulsa intensamente e scivola in via Vittorio Emanuele, l’arteria principale che taglia in due l’abitato. Arriviamo in piazza Umberto I, dominata dalla Chiesa Madre. L’antica agorà è assolata e rimanda negli occhi la manifestazione antimafia che qui si svolge ogni anno, nell’ambito della quale vengono letti i nomi dei caduti per mano mafiosa. Un paio di svolte e si scorge il mare. Laggiù, in lontananza, costituisce un sorprendente sfondo dai colori accesi, dove il verde smeraldo si trasforma in blu scuro mano a mano che ci si spinge verso l’orizzonte. Adesso lo sferragliare delle automobili sembra solo un ricordo ma il fetore che rende elettrica l’aria si rifà di nuovo sotto. Sembra provenire direttamente dal mare, sostituendo in modo improprio il profumo di salsedine. Il sole di inizio giugno illumina la giornata ma le spiagge sono insolitamente deserte. Si scorge solo un gruppetto di uomini. Guardiamo meglio, attraverso l’obbiettivo della macchina fotografica. Indossano una tuta blu e dei caschi gialli da lavoro. Camminano lungo il bagnasciuga e parlano tra di loro. Sullo sfondo alcune barche si muovono lentamente, parallele alla riva. Gli scafi hanno colori sgargianti: rossi e gialli. Impossibile non notarle. Saranno una decina in tutto e sembrano cercare o controllare qualcosa. Sul lato est, in fondo, si stagliano le imponenti ciminiere delle raffinerie. È in quella direzione che decidiamo di andare.
Raggiungiamo la spiaggia. Si fatica a respirare, sempre di più, metro dopo metro. La gola pizzica e il rimpianto è quello di non esserci premuniti di una mascherina. Un cartello recita che “il bagno non è garantito per assenza di assistenza bagnanti”. Una altro dice che “è in vigore il divieto di balneazione”. Entrambi portano la firma dell’amministrazione comunale. Sono così arrugginiti che si leggono a fatica e sembrano l’arredo urbano di un quartiere abbandonato. Ci addentriamo sulla spiaggia, verso un enorme pontile chiuso al pubblico perché dichiarato pericolante. Qualche metro più in là un gruppo di ragazzi gioca a calcio, sorvegliato da tre adulti attenti in tuta da ginnastica. Rincorrono il pallone su un ampio bagnasciuga e riescono a distinguersi grazie alle pettorine fosforescenti. Procediamo verso la zona della raffineria, cercando ovunque con lo sguardo. Siamo contro vento e l’olezzo persiste, anzi, s’incrementa. Qui il mare non sembra avere profumi, orfano della solita intensità. Le barche colorate si danno sempre un gran da fare. Trascinano a poppa, dietro di sé, una sorta di cerchio galleggiante composto da anelli bianchi. Sulla sabbia si scorgono anomale tracce scure, ombre grigiastre come flebili pennellate gettate qua e là sopra la tela. Di colpo ci assale una strana inquietudine. È come se avvertissimo solo in quell’istante un senso di pericolo. Avanziamo di nuovo, la raffineria è sempre più vicina, come le sue ciminiere fumanti. Il fiato si accorcia e il fastidio nelle narici non concede tregua. Muovo l’obbiettivo e faccio qualche scatto. Nella sabbia notiamo pezzi di conchiglie, vetri, bottiglie, sacchetti di plastica. Ci sono anche bidoni della spazzatura riversi a terra come giganti inanimati. Controllo la luce e l’esposizione e solo allora lo vedo. È adagiato sulla sabbia, quasi mimetizzato tra i granelli dorati. All’inizio sembra un sasso nero, anzi nerissimo, ma poi controllo meglio. Ne tocco uno. Mi resta sulle dita del grasso oleoso. L’odore tipico è quello della benzina. Nessun dubbio: è petrolio. Un composto molliccio, gommoso, scuro come il catrame che si è solidificato in acqua. Il mare lo ha sputato fuori e ora è lì. Intorno ce ne sono altri. Più si avanza verso la raffineria e più se ne trovano. È un disastro le cui conseguenze sono impossibili da calcolare, danni compresi. Osservo il panorama dall’obbiettivo della macchina fotografica. Un grumo di petrolio in primo piano, sullo sfondo le rotte forzate e affannate delle barche rosse e gialle. Peccato che nelle fotografie non si potrà percepire il tremendo afrore che sa di punto di non ritorno.
Risaliamo la spiaggia e torniamo alla macchina. Prima di lasciare Gela ci fermiamo di fronte alle raffinerie, sul ponte che attraversa il fiume omonimo. Alcune persone in tuta blu vigilano la perdita di petrolio arginata da cordoni galleggianti, appoggiati su acque troppo scure per essere definite torbide. Un ultimo scatto, un ultimo frammento da imprime nella memoria. Alle mie spalle l’ennesimo cartello arrugginito della serie. Ricorda che lì, di fronte a noi, vige il “divieto permanente di balneazione”.
La terra continua a morire. Non scordiamocelo.
MaLo