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Arnaldo Pomodoro, alfabeti plastici e anni Settanta

Creato il 08 giugno 2011 da Francescotadini @francescotadini

Negli anni Sessanta e Settanta, quando nelle gallerie d’arte si discuteva d’arte e le persone che le frequentavano erano convinte – così facendo – di creare un mondo nuovo (dei rapporti umani, non solo delle forme o di una modernità “post”), non era raro che le chiacchierate si trasformassero in qualcosa di più. In argomenti che trascinavano teorie. In idee che si riverberavano, Arnaldo Pomodoro, alfabeti plastici e anni Settantaimmediatamente dopo nell’azione quotidiana degli atelier. Continuando la pubblicazione degli articoli di mio padre nell’archivio testi del blog Francesco Tadini in wordpress, ho trovato questa intervista del 1976 ad Arnaldo Pomodoro. Mi ha colpito soprattutto questo scambio di battute:

Emilio Tadini chiede ad Arnaldo Pomodoro: “(…) Questa specie di alfabeto combinato all’infinito. È un alfabeto che non si può definire astratto. Forse si potrebbe dire che è come una scrittura incomprensibile in quanto tale: incomprensibile come se appartenesse a una lingua lontanissima nel passato e insieme lontanissima nel futuro. Non pensi che proprio qui si possa rintracciare uno degli elementi espressivi che agisce nel tuo lavoro? E Pomodoro risponde: “Sai che oltre all’opera centrale di cui stiamo parlando (questa scultura-architettura, questa scultura-paese) esporrò anche una serie di “Cronache”. Le chiamo così perchè proprio usando quella mia “scrittura”, o meglio quella specie di mio alfabeto plastico(proprio perchè a livello plastico dovrebbe essere integralmente comprensibile) io scrivo-scolpisco delle tavole in cui voglio significare il mio rapporto con certe persone, con certi amici. Ne ho fatte due per Paolo Castaldi, due per Ugo Mulas, due per Gastone Novelli…(…)”

Insisto, come ho fatto con un precedente articolo, a mettere l’accento su questa urgenza: gli artisti non aspettino – per lo più chiusi nei loro studi con “i sacchi di sabbia davanti alla finestra” – che siano i critici, i grandi mercanti o le aste di rilievo per “fare l’arte delle idee”. Per comunicarla. Per avvincere. Per richiamare le persone. Non aspettino la degnazione, gli ambiti istituzionali… la Biennale o qualche sponsor politico. Facciano loro la politica, le nuove istituzioni, le gallerie… proprio come accadeva negli anni Sessanta e Settanta. Spazio Tadini non aspetta altro che di essere colonizzato da temi e idee fresche. Siamo impazienti di conoscere (anche tramite il web) artisti che ci portino via l’anima. Esattamente come accadde in molte minuscole e (a quei tempi) ignote botteghe espositive. Per fare solo un esempio: come accadde allo Studio Marconi che, per decisione collettiva (del gallerista, Giorgio, e degli artisti tutti) si chiamò “studio” perché sarebbe stato “eccessivo” chiamare “galleria” un ambiente non enorme e situato al secondo piano di uno stabile /senza vetrine su strada)….  (qui il link al sito della Fondazione Marconi)

E ora l’intervista:
Emilio Tadini, Conversazione con Arnaldo Pomodoro, in “Studio Marconi”, Milano, 9 giugno 1976, n. 6/7, pag. 5 – 11

D. Come è nato questo lavoro?
R. Anzitutto ti faccio un racconto. Sono andato a Pietrarubbia perché certi amici mi avevano compagnato a visitare il posto. È un borgo che sta andando in rovina. Ci abita soltanto un pastore. Le case hanno muri di pietra enormi, ma i tetti stanno crollando. Va tutto a pezzi. Tra l’altro, sai, io sono nato lì vicino, a una decina di chilometri. Il paesaggio – il paesaggio naturale e quello dell’architettura – è quello che ho conosciuto da bambino. Sono rilievi, colline con in cima rocche medioali, tra Marche e Romagna. San Marino è la più famosa… Così sentivo il dovere o volere dare un senso a quella si tuazio, a quel frammenti di una cultura che stava distruggendosi. Da noi è così dappertutto, no? C’è una non cultura ignobile che il sistema sta diffondendo… Per quello che riguarda l’architettura lo si vede molto bene. Dunque, pensavo addirittura a qualche sistemazione…
D. Ti avevo chiesto dell’idea di questo lavoro, come ti era venuta…
R. Certo, la scultura. Ma vedi, credo che tutto sia incominciaproprio come ti ho detto. L’incotro con un frammento della tra cultura – e l’emozione che ne avevo provato, la voglia di fare qualcosa in rapporto a ciò .. È a questo punto che mi è venuta l’idea della scultura. Una scultura che in un certo senso desse forma alla mia emozione tutto quello che avevo visto (e che mi aveva scosso) in movimento che lo rimettesse. Per così dire in vita.
D. Stiamo parlando proprio davanti a una tua grande scultura di qualche anno fa, la “Tavola della memoria”. Non ti sembra che sia interessante rintracciare le relazioni tra il tuo lavoro di allora e quello di adesso?
R. La “Tavola della memoria” è un lavoro che ho incominciato nel ’59 e che ho finito nel ’65. Sì, credo che ci siano delle relazioni e ho detto in che senso sono nel mio “appunto” sull’opera. Si tratta anche per me di riprendere una condizione arcaica del rapporto con le cose e con la forma: e darle un senso profondamente attuale, proiettarla in avanti. Ciò vuol dire per me trovare l’originario e l’essenziale in un rapporto con le categorie spazio temporali.
D. Proprio questo, mi sembra, è il senso di quella che potremmo chiamare la tua “scrittura” (ma senza riferimenti diretti a una scrittura.). Questa specie di alfabeto combinato all’infinito. È un alfabeto che non si puo definire astratto. Forse si potrebbe dire che è come una scrittura incomprensibile in quanto tale: incomprensibile come se appartenesse a una lingua lontanissima nel passato e insieme lontanissima nel futuro. Non pensi che proprio qui si possa rintracciare uno degli elementi espressivi che agisce nel tuo lavoro?
R. Sai che oltre all’opera centrale di cui stiamo parlando (questa scultura-architettura, questa scultura-paese) esporrò anche una serie di “Cronache”. Le chiamo così perchè proprio usando quella mia “scrittura”, o meglio quella specie di mio alfabeto plastico (proprio perchè a livello plastico dovrebbe essere integralmente comprensibile) io scrivo-scolpisco delle tavole in cui voglio significare il mio rapporto con certe persone, con certi amici. Ne ho fatte due per Paolo Castaldi, due per Ugo Mulas, due per Gastone Novelli… Voglio che alcune di queste tavole, alcuni di questi fogli, siano esposti insieme all’opera centrale. Sono alcune delle presenze, in fondo, che vorrei che abitassero la dimensione di quella scultura, nella sua estensione storica, tra passato e futuro e nella sua attualità,
D. Credo che anche in queste tue “Cronache” sia in atto quel rapporto dialettale tra arcaicità e attualità che mi sembra stia alla base di tutto il tuo lavoro. Ma non ti sembra che questo rapporto dialettico sia “figurato” plasticamente in modo esplicito proprio nel lavoro di Pietrarubbia?
R. È quello che cerco di fare. Ma ti preciso alcuni elementi tecnici che sono strutturali dell’opera. Ogni pezzo è autonomo e al tempo stesso fa parte dell’insieme. Sono moduli, blocchi di 260 x 150, e ognuno ha un titolo, una sua ragione specifica. Ma vorrei che il significato più profondo di questo mio ultimo lavoro non fosse in una – immagine immobile, definita una volta per tutte: ma piuttosto in una dimensione, in un clima, e soprattutto in una pratica aperta di lavoro. Col tempo potrò sostituire alcuni dei pezzi. Forse potrò fare entrare nel “luogo” di questa opera anche i miei oggetti o fattori sculturali. Cero farò in modo che l’opera completa anche se mai definita veramente “in progress” riveli di continuo le contraddizioni di cui è costituita.
D. Potremmo dire insomma che questo tuo lavoro dovrebbe sporsi fino in fondo nella dimensione del tempo…
R. Scusa, le suggestioni iniziali nell’arte contemporanea vengono meno dalla cultura africana, orientale, ecc. ecc. Forse io ho trattato così la nostra… Ma faccio una scultura che vive di tradizioni. E a New York vorrei esporre, nell’opera di Pietrarubbia, anche due sbarre di acciaio lucidissimo con sopra proiettate delle immagini di mie superfici scolpite. Perchè la contraddizione e la complessità siano addirittura indicate, sottolineate… E poi non vorrei escludere nessun materiale – pietra, marmo, legno, ferro. Ma vorrei che il materiale usato non funzionasse mai come un riferimento illustrativo – come un’evocazione troppo immediata. Per esempio non vorrei che la pietra agisse come una allusione diretta alla pietra, di cui sono fatte le case di Pietrarubbia. Vorrei che la pietra, se mai, entrasse con una evidenza immediata nel gioco globale dell’opera-scultura, di questa scultura “in progress”. Cioè, non voglio “rifare” Pietrarubbia. E non voglio neanche mettere in piedi una figurazione che la rappresenti. Vorrei uno spazio definito da una serie di sculture – uno spazio che diventi tutto scultura – e in cui certi valori venissero significati certi valori della storia: ma non nel senso di parlare di cose che sono accadute, e finite, e basta… se mai, nel senso che la storia è sempre la stessa (dipenza del potere…).
D. Il discorso sta tornando al suo principio, non ti pare?
R. È vero. Mi ha improvvisamente interessato qualche cosa di un vecchio paese in rovina dalle mie parti; c’era qualche cosa in quella distruzione che mi ha spinto ad agire in modo molto diverso. A lavorare, a cercare d’inventare un “luogo di sculture”… Forse con quel rapporto dialettico tra arcaicità e attualità di cui hai parlato a proposito del mio lavoro, del mio modo di lavorare adesso metafora di quel rapportò dialettico, in fondo, potrebbe consistere nella contraddizione tra oscurità e lucidità, tra complessità e semplicità – ma proprio in termini di discorso plastico…

Per altre informazioni  sulle opere e sugli scritti di Emilio Tadini: mail:  [email protected] – Archivio Eredi Tadini, Francesco Tadini.

Arnaldo Pomodoro, alfabeti plastici e anni Settanta


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