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Su FaceBook è tutto un piagnisteo; ogni giorno muore un musicista, ogni giorno muore un pezzetto della nostra gioventù, ogni giorno muore un pezzo di rock e ogni giorno noi abbiamo un giorno da vivere in meno. È triste, anzi è tragico, ma dovete farvene una ragione; tutti si morirà un giorno, per quanto si possa esserne contrari, ed io sono veramente contrarissimo.
Come dice Woody Allen, non è la morte il problema; è che si muore per troppo tempo!
La cosa migliore è vivere senza pensarci. Per questo non celebro né i nati, né i morti, e non partecipo su FaceBook a quella giostra di pubblicazioni di anniversari che sembrano essere il primo interesse di molti. Non piango le persone, che saranno più appropriatamente piante dai loro cari, al massimo mi mancano gli artisti - anche se alla gran parte di loro era rimasto poco da dire. Con qualche notevole eccezione.
Una cosa mi irrita, devo essere sincero: tutti quei commenti del tipo: “ecco, i critici lo snobbavano, adesso che è morto saranno contenti”. Mi irrita perché mi domando perché perdo tempo a leggere queste stupidaggini (e infatti ne perdo poco). Mi irrita la santificazione di ogni nome, quasi la morte ci pareggi tutti, belli e brutti, buoni e cattivi, bravi e scarsini; nel sepolcro tutti si diventa bravi, belli e buoni. Con la mia storia del rock ho una missione: raccontare come stavano davvero le cose; sono un cronista musicale, e anche se con tutte queste vittime comincio a sentirmi un cronista di guerra, non rinuncerò per questo a smentire il revisionismo di questi anni zero dieci.
Keith Emerson era un virtuoso della tastiera, che ha conquistato al rock molti adolescenti ai tempi delle superiori. Un’idolo dei teenager, per un pugno di anni. Ha scritto una autobiografia, intitolata Pictures of an Exhibitionist, il cui pregio maggiore è stata la sincerità. Perché Keith non ha esitato a dipingersi come un superficiale, un astioso (verso tutti, da Leonard Berstein a Rick Wakeman, a PatricK Moraz), un'anima semplice, che come un soldatino di leva in libera uscita si entusiasmava molto di più per le profferte sessuali delle groupies che per la musica, di cui sulla autobiografia non si parla praticamente mai. Leggendola si capisce perché gli EL&P, un gruppo adolescenziale di virtuosi dello strumento, sono stati un tale spreco di talento: per la più totale mancanza di buon gusto.
Ci sono stati, ben inteso, tempi di fascino per l’Hammond B12 di Emerson; sono stati i primi anni dei Nice, un gruppo psichedelico nato nel corso di quella bollente scena post psichedelica di fine anni sessanta in cui la musica rompeva argini e convenzioni per sperimentare e crescere. Il primo album dei Nice, The Thoughts of Emerlist Davjack, allora un quartetto appena affrancatosi dal ruolo di backing band della cantante americana P.P. Arnold, è stato uno splendido album psichedelico, un’esplosione di energia proto-punk che spingeva Emerson a bruciare la bandiera americana sul palco durante l’esecuzione di America, pagando lo scotto di essere banditi dai palchi USA. Una mistura di tastiere suonate con una fisicità Hendrixiana, la voce inquietante ed affascinante di Lee Jackson, la follia di David O’List (che per uno scherzo del destino si trovò a sostituire in incognito in più di una serata l’ancora più folle Syd Barrett). Per inciso, il batterista Brian Davidson è morto qualche anno prima di Emerson.
Quasi altrettanto affascinante Ars Longa Vita Brevis, dove Bach è fuso al rock’n’roll con una violenza che anticipa Arancia Meccanica. Dei dischi successivi sono apprezzabilissime le registrazioni live in concerto, dove Emerson tirava fuori la sua dote più grande, un talento immenso per l’improvvisazione, unico fra tutti i tastieristi del rock.
Ma Keith non era davvero cosciente del potenziale del suo gruppo, così come Greg Lake non aveva compreso quello di In The Court Of The Crimson King. Il supergruppo che misero assieme firmando per la Atlantic era un cold turkey. I necrologi dei fan di Emerson citano spesso e volentieri Lucky Man; ironico, essendo una ballata del tutto di Greg Lake, precedente agli EL&P, aggiunta all’album d’esordio per mancanza di materiale, e il cui unico apporto del tastierista fu un orrendo effetto finale di Moog.
Se c’è un album che vale la pena di ricordare degli EL&P è Pictures At An Exhibition, perché è registrato dal vivo ed è ricco di quella energia iconoclasta sopravvissuta ai Nice, con l’inserimento di una potente ballata di Greg Lake, The Gnome, che fa il paio con Epitaph. Per il resto gli unici momenti memorabili del gruppo furono le ballate di Lake, mentre un pubblico giovane e dalle orecchie ingenue impazziva per la velocità di Keith e i miagolii del Moog. Nonostante il successo il gruppo perse un sacco di soldi in eccessi (come un’orchestra classica portata in tournée) e alla fine i tre si lasciarono malamente. Nessuno riuscì più a realizzare nulla (si glissi sugli Asia di Carl Palmer).
Keith lo chiamavano Mr.Cognac, per la sua attitudine alla bottiglia. Il successo lo aveva pagato con l’amarezza dell’esilio dall’amata Inghilterra, per motivi di tasse. Aveva vissuto a Montreux (uno dei posti più noiosi del pianeta), alle Bahamas (dove gli EL&P avevano registrato un disco orrendo) e alla fine in California. Aveva riunito talvolta gli EL&P, ma sempre solo per denaro e litigando puntualmente con Greg Lake. Una volta riunì i Nice, con lo sfregio di lasciarli suonare poco, e in subordine ad altri musicisti. Registrò anche un album solista per piano, Keith Emerson Plays Keith Emerson, da cui lasciava fuori il suo unico talento, quello di grande improvvisatore.
Aveva perso un po’ alla volta l’uso della mano destra, il che per un virtuoso era più che uno scherzo del destino, era una tragedia. E tragica è stata la sua uscita di scena; forse l’unico gesto di arte drammatica della sua vita, un gesto teatrale che merita rispetto.
A chi non lo conosce consiglio l’ascolto di The Nice, l’album del 1969, ed Elegy, un postumo del 1971, due album che gli danno un posto nell’Olimpo delle tastiere del rock.