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Immagini pindariche e concatenate, immerse nella dimensione più profonda dell’inconscio ed avvolte da un velo critico contro il clero e la borghesia; le dinamiche irrazionali e l’ossessione verso la sessualità umana: è questa l’essenza del cinema di Luis Buñuel. E nella sua opera prima, Un Chien Andalou, queste tematiche sono evidenti. È interessante, dunque, analizzare l’aspetto citazionistico-referenziale e le influenze legate al contesto storico per comprendere il percorso professionale di un personaggio che ha sicuramente lasciato il segno nella settima arte.
Scritto in pochi giorni da Buñuel e dal pittore Salvador Dalì, che riescono a realizzare a Parigi il loro progetto con i soldi offerti dalla madre del regista, il film assimila i concetti espressi nel Primo Manifesto del Surrealismo e dal poeta francese della ‘bellezza convulsa’ Lautréamont.
Anche il titolo, slegato dai fotogrammi della pellicola in perfetta tradizione surrealista, riprende Un perro andaluz, raccolta di poesie e prose scritte da Buñuel tra il ’24 e il ‘27, letta da molti come critica nei confronti dell’ex amico e scrittore Garcia Lorca (autore del Romancero Gitano); proprio l’appellativo di ‘cane andaluso’ viene giudicato offensivo dal poeta, ormai destinato a vivere un rapporto conflittuale con Buñuel e Dalì per i continui disaccordi e le divergenze di pensiero.
Nella sequenza iniziale il rimando alla poetica di Lorca è ancora una volta visibile: la rappresentazione della luna, figura ricorrente nella sua produzione, viene utilizzata da Buñuel poco prima di mostrare la celebre scena del taglio dell’occhio (ouverture con quest’ultimo nel ruolo di attore che da il via alla narrazione).
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Richiami alla pittura, alla letteratura e al cinema continuano ad essere rappresentati nello modello artistico dell’autore, deciso a sconvolgere le regole più che a riconoscerle. L’idea di rivoluzionare e rimescolare le consuetudini attraverso la concretezza, di sperimentare e trovare qualcosa di nuovo che potesse ‘impressionare’ lo spettatore, rappresentava per il regista una conferma, un’idea chiara. A partire dalle sequenze che mostrano una discontinuità spazio-temporale, evidente nella scena in cui la donna esce dalla porta e si ritrova sulla spiaggia. Anche in questo caso, Buñuel riprende l’espediente da ‘La palla numero 13’, nel momento in cui Buster Keaton (molto stimato dal regista) apre la cassaforte e si trova catapultato in mezzo ad una strada trafficata: da qui la richiesta di emulare le gestualità dell’attore americano al protagonista Pierre Batcheff. Non mancano le allusioni alla pittura: da ‘Oscuro sospetto’ di René Magritte (scena delle mano mozzata da cui escono le formiche) a ‘La merlettaia’ di Vermeer (rimando alla donna), passando per le atmosfere del quadro ‘Angelus’ di Millet, ‘dipinte’ dal regista nella variante finale con i due attori sotterrati nella sabbia e con la testa scoperta.
Costruire un sogno e renderlo ‘reale’, raccontare qualcosa che non può essere raccontato, utilizzando l’arte nascente e più ‘giovane’ come fece Buñuel, rappresentò una svolta negli anni ’20-’30, così come gli approcci e le tecniche delle correnti avanguardiste che lasciarono il segno e influenzarono, in qualche modo, il cinema hollywoodiano e commerciale. La stessa voglia di svolta espressa oggi da Quentin Tarantino nei suoi film, carichi di riferimenti ed omaggi a registi, attori, pittori e compositori del passato che molti decenni prima diedero un contributo importante per lo sviluppo di quell’affascinante mondo chiamato Cinema.
Andrea Rurali