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Arte sacra dalla terra del drago tonante

Da Catone
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Didascalia: I monaci che vegliano sulla mostra durante il rito di venerazione (swissinfo)
Il buddismo tantrico del Buthan e le opere d'arte a cui ha dato origine tra l'VIII e il XIX secolo sono al centro di una suggestiva e singolare esposizionein corso al Museo Rietberg di Zurigo fino al 17 ottobre.
Già da dietro le grandi porte di vetro che ci introducono alla mostra l'imponente e coloratissimo portale in legno e l'altare decorato con gli stessi motivi catturano il nostro sguardo. E una volta all'interno è palpabile l'impressione che le sale espositive del Rietberg siano state trasportate per incanto in uno spazio sacro e lontano.
Siamo consapevoli di non trovarci dentro un tempio, eppure le piccole statue di Buddha esposte lungo le pareti, come gli stendardi dipinti appesi di fronte all'altare ci danno l'impressione di essere entrati in un luogo di riflessione e preghiera.
Del resto quelle che abbiamo di fronte non sono vere e proprie opere museali, ma in primo luogo oggetti sacri, che per la prima volta si trovano raccolti insieme in un'esposizione e che, di ritorno in patria, saranno usati nuovamente nei riti religiosi.
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Buddha Akshobhya, XVIII secolo
L'importanza del buddhismo in BhutanSituato nel versante sud dell'imponente catena montuosa dell'Himalaya il reame del Bhutan – che ha all'incirca la stessa superficie della Svizzera ma una popolazione 10 volte inferiore – condivide molti aspetti culturali con il Tibet, tra cui la religione.
Il buddhismo occupa un posto estremamente rilevante in questo paese ed è profondamente ancorato in ogni forma ed espressione della cultura – dalla musica, all'arte, alla danza fino alla medicina – oltre che nella vita quotidiana di tutti i suoi abitanti.
«In Bhutan, non è possibile separare la religione dalla cultura», ha dichiarato Penden Wangchuk, segretario del ministero degli affari culturali presente alla conferenza stampa indetta per presentare la mostra. «Per i bhutanesi, il buddhismo è uno stile di vita; è parte della nostra cultura».
Un segno di apertura verso il mondoVissuto per secoli in una sorta di isolamento volontario che l'ha reso immune al passare del tempo, è solo dal 1974 che – con giustificata diffidenza e una vigilanza estrema – il Bhutan ha aperto le proprie porte al mondo e a un numero ristrettissimo e controllato di turisti.
Ma oggi il piccolo stato himalayano si avvia con fiducia verso la modernizzazione, una modernizzazione che con un piede nel passato e un altro nel futuro protegge in modo fiero la sua antica cultura, le sue meravigliose risorse naturali e il suo stile di vita profondamente buddhista.
La mostra Arte sacra dall'Himalaya ne rappresenta un esempio. Il Rietberg è l'ultima tappa di una tournée internazionale partita nel 2007, l'esposizione costituisce un'occasione straordinaria per ammirare opere che fino al presente non avevano mai oltrepassato i confini del paese.
«Per le istituzioni religiose del Bhutan non è stato facile separarsi da queste opere», ha detto il ministro Penden Wangchuk. «Finora la scuola di pensiero indicava che tutto ciò che è sacro e antico doveva essere conservato con cura e non reso accessibile al grande pubblico. Ma questo modo di pensare sta lentamente cambiando. Noi crediamo che ogni oggetto sacro, ogni antichità di proprietà dello stato debba poter essere vista dalla popolazione che crede nella benedizione che può ricevere da questi oggetti».
" In Bhutan non è possibile separare la religione dalla cultura. "
Penden Wangchuk, segretario ministero bhutanese della cultura
Il folto olimpo del buddhismo bhutaneseOltre che da piccole e preziose statuette e oggetti rituali la mostra è composta soprattutto dai coloratissimi Thangkas, raffinati e preziosi stendardi in cotone e seta, dipinti o ricamati, che raggiungono anche grandi dimensioni e che in patria sono conservati arrotolati e appesi sugli altari dei monasteri o portati in processione solo in occasione di particolari cerimonie o rituali.
Queste opere narrano storie prodigiose e avvincenti sia sull'origine del mondo – come ad esempio nei Mandala – che sull'affollato olimpo del buddhismo bhutanese con i suoi Bodhisattva (essere illuminati), gli Arhats (discepoli del Buddha storico Shakyamuni) e altre divinità con origini anteriori, vinte e convertite dai grandi maestri del buddhismo.
Ricche di particolari e molto suggestive sono le immagini che raccontano la vita del leggendario maestro indiano Padmasambhava, primo e più importante diffusore del buddhismo in Tibet, ovvero quello della scuola Vajarayana o buddhismo tantrico.
In Bhutan egli è venerato come un secondo Buddha ed è chiamato in modo affettuoso Guru Rinpoche, Maestro Prezioso. In questa manifestazione è rappresentato vestito come un re, con un copricapo ornato da sole e luna, segno dell'unità cosmica, e un bastone con tre teste, simbolo della vittoria sui 3 ostacoli fondamentali incontrati sulla via dell'illuminazione: la cupidigia, l'odio e l'ignoranza. Ma l'arte del Bhutan lo ritrae anche in diverse altre forme che alludono alle esperienze mistiche da lui fatte nel corso della vita.
Rituali quotidianiIl carattere eccezionale di questa mostra è sottolineato anche dalla presenza di due monaci bhutanesi che vegliano sulle opere sacre e ogni giorno – alle 10.30 e alle 15 – compiono dei rituali all'interno dello spazio espositivo.
Quella del mattino è una cerimonia di purificazione che aiuta a ristabilire nelle sale l'armonia disturbata dagli influssi negativi che i visitatori portano con sé e serve a rafforzare l'aura spirituale delle opere esposte.
«La preghiera delle 15 è invece una cerimonia di offerta alle divinità», ci dice il giovane Lama Kinzang Thinlay. «Rivolgiamo dapprima le nostre preghiere alle maggiori divinità del Bhutan e poi alle divinità locali della regione di Zurigo. Nel nostro paese abbiamo divinità alle quali dedichiamo cerimonie di offerta perché abbiamo molti oggetti sacri che vogliamo siano protetti. Ma siamo convinti che ogni villaggio, ogni luogo, ogni montagna abbia divinità locali che bisogna rispettare e onorare per avere la loro benedizione».
Paola Beltrame, Zurigo, swissinfo.ch
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