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Arte salentina: Giuseppe Diso e l’archetipo dell’eden perduto

Creato il 26 marzo 2011 da Cultura Salentina

di Donato Valli

Arte salentina: Giuseppe Diso e l’archetipo dell’eden perduto

© Giuseppe Diso: Estate (olio su tela 80x100, anno 2010)

Come tutti gli artisti che hanno fatto della pittura la ragione del loro impegno vitale, anche Giuseppe Diso non ama l’eclettismo dei contenuti. Egli ha fissato la sua attenzione e il suo studio su tre principali tematiche: la campagna salentina, i ritratti di donna, la natura morta con fiori. Temi classici della pittura, come si vede, che consentono all’artista di esprimere tutte le sue capacità creative e quindi pienamente legittimati a rappresentare non un’avventura dilettantesca ma un universo di sentimenti e l’ideologia poetica che quell’universo giustifica.

Infatti il ritorno sugli stessi temi non ha soltanto una motivazione d’ordine sentimentale, ma racchiude in sé l’impegno di un laborioso sperimentalismo. Esso è la molla della ricerca di un appagamento che si verificherà soltanto quando l’intuizione riuscirà a sconfiggere ogni residuo di accomodante realismo e ad attingere la sfera dell’immateriale che dà anima e individualità specifica al paesaggio. I paesaggi di Diso nella loro morandiana castità non danno adito a compiacimenti descrittivi in senso realistico nonostante l’aderenza a un dettato naturalisticamente esatto, in sé concluso. Essi rimandano ad altre dimensioni che, in un certo senso, purificano la storia e la memoria della ragione che intendono rappresentare. Un attonito silenzio incombe sui colori attenuandone la vivacità, quasi a renderli sospiri di sogni sopiti, modelli puri che anticipano una realtà imminente, ma sempre futura. Una ispirazione di tipo platonico, in linea con la cultura e l’antropologia del Salento, che è la patria del pittore, disegna la solitudine d’un premondo ancora senza vita, dove le case, gli alberi, la terra sono entità geometriche d’una armonia pura, priva di suoni, di vento, di vita. L’oggetto si presenta nella sua nudità castigata, ma non mortificata, qual è la potenza che freme dell’ attesa invisibile degli eventi: proprio per questo il paesaggio ha qualcosa di eternale, di sovrastorico, che l’impasto dei colori, docilmente fusi in un conclave che annuncia l’imminenza dell’iride, trasforma in archetipo.

Questo modo di fare pittura riguarda anche i quadri dedicati alle figure di donne, le quali possono ben definirsi icone dell’ attesa. Sono assorte in se stesse e insieme proiettate verso uno sguardo penetrante che finisce col colpire l’intimità dell’osservatore, sorpreso della loro semplicità, coinvolto nel loro domestico desiderio di cieli sconosciuti. Anch’esse sembrano immerse in un silenzio metafisico, più significativo d’ogni grido, quasi stremate dalla loro stessa attesa e per questo testimoni di un’innocenza intangibile a ogni terreno affanno; eppure umanissime nei pensieri e nei sentimenti che si indovinano nel casto scenario che fa da sfondo alla loro epifania di creature senza tempo, senza cronaca, senza orpelli di vissuti non coincidenti con la loro disarmata individualità.

A questa tipologia poco o nulla aggiungono le tele dei fiori, essendo inessenziale alla creazione di queste atmosfere il puro gioco dei contenuti: i loro colori, pur se vivaci, rinviano sempre all’ideale serra di un eden perduto, del quale rappresentano la struggente nostalgia.


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