Magazine Arte
Nella foto un'installazione allo stand di Berlino
Continuando l’andare a zonzo, incontro lo stand di Berlino, affollato di visitatori, qui è la tecnica che la fa da padrona, la meccanica, la geometria.
Macchine improbabili, più ottocentesche che contemporanee, comunque Berlino si dimostra la città più all’avanguardia perché il nuovo artista sarà lo scienziato.
E’ lo scienziato che si sta “umanizzando” ovvero slegandosi dalla regola certa ma immaginando e creando nuove realtà, avvicinandosi alla filosofia, è già un mondo di…Matrix.
Nella foto un'opera di Matteo Bergamasco
Ad un certo punto, un po’ stanca, preferisco i musei alle kermesse, intravedo un quadro sontuoso.
Una grande tela che evoca “Le mille e una notte “ , una tela per sognare, tecnicamente impressionista se non addirittura barocca , è tuttavia un quadro nuovo ed attuale, pieno zeppo di ricordi e di colori ammucchiati ma uniti fra loro da una strana alchimia.
E’dell’artista milanese Matteo Bergamasco, vincitore del premio Lissone 2002, del premio Cairo 2003 e reduce dalle ultime personali di San Francisco, Los Angeles e Amsterdam, dal titolo “Limpidezza senza nome”. Un percorso in immagini e sensazioni. Interni defraudati dall’anima di chi li ha vissuti, dove oggetti e luoghi abbandonati appena dall’esistenza, accolgono lo spettatore in un viaggio di ricordi e percezioni.
Matteo Bergamasco dipinge gli oggetti di una vita, anche i tuoi oggetti, le tue cose, la tua vita te la ritrovi lì.
Nella foto immagini di Venezia di Silvia Camporesi
Strane sono le foto di Silvia Camporesi, riescono a darti una visione nuova di Venezia e questo non è per niente facile con una città totalmente inflazionata di immagini come è la Serenissima, ma Silvia vi riesce, mischia le carte, fotografa allo stesso modo, sia Venezia che la Venezia di Italia in miniatura, e le Venezie si confondono fra di loro.
Silvia vive e lavora a Forlì, dove è nata nel 1973. Si è laureata in filosofia presso l’Università di Bologna e oggi è una delle più apprezzate e originali artiste italiane che privilegiano l’utilizzo del mezzo fotografico. Affianca l’attività artistica all’insegnamento di Fotografia e Critica dell’immagine presso diverse associazioni e università.
Nella foto un'opera di Giorgio Celiberti
Come vi ho detto, alla Fiera sono presenti tanti Grandi, ma ormai li conosco e mi hanno stancato un po’, poi sarà fra duecento o trecento anni che i nostri pronipoti decideranno chi sono i Grandi e chi i discreti artisti, mi piace però cercare fai i Maestri, quelli che hanno tutte le credenziali ma sono rimasti un po’ in ombra.
E’ il caso di Giorgio Celiberti, artista potente e carismatico che meriterebbe di essere più famoso. Giorgio Celiberti è uno degli ultimi artisti viventi ad aver partecipato alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra. Inizia a dipingere giovanissimo, imponendosi subito per la sua originalità di linguaggio tanto che, appena diciannovenne, partecipa alla Biennale di Venezia del 1948. Si iscrive al Liceo Artistico di Venezia e poi frequenta lo studio di Emilio Vedova. Grande amico di Tancredi con il quale condivideva la ricerca pittorica di impronta informale in opposizione all'accademismo
Nei primi anni Cinquanta si trasferisce a Parigi, dove rimane per due anni, e qui entra in contatto con i maggiori rappresentanti della cultura francese. Dopo questo periodo di studio, parte per Londra per poi spostarsi negli Stati Uniti, dove soggiorna in Messico, a Cuba, in Venezuela; da queste esplorazioni ne deriverà quel repertorio di segni che poi rielaborerà negli anni successivi. . Nel 1965 l’artista riceve un forte impatto emotivo dalla visita al campo di concentramento di Terezin, vicino a Praga, dove migliaia di bambini ebrei prima di essere trucidati avevano lasciato, testimonianze toccanti della loro tragedia. Da quella esperienza realizza il ciclo che lo rende noto al grande pubblico: quello dei “Lager”, costituito da tele preziose per impasti e per cromie, tanto spesse e materiche da proporsi già in forma di bassorilievi. A questi seguono, negli anni Settanta, i “Muri antropomorfici”, opere in cui l' archeologia entra nella pittura in modo diretto e in cui il tentativo dell'artista è quello di placare l'angoscia per la guerra, per l'ingiustizia sull'uomo, per i pericoli della tecnologia. Da qui derivano i lembi di muri visti nelle celle dei campi di concentramento, in quelle tracce, unica memoria di esistenze annullate.
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