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Artisti o artigiani? Considerazioni sul saper fare “arte” nella preistoria

Creato il 14 dicembre 2015 da Pierluigimontalbano
Artisti o artigiani? Considerazioni sul saper fare “arte” nella preistoria di Vincenzo Stasolla. Artisti o artigiani? Considerazioni sul saper fare “arte” nella preistoria
Ciò che viene convenzionalmente identificato come arte preistorica, sulla base di una sovente critica stilistica, basata sulla percezione visiva di rappresentazioni esaminate con fare artistico contemporaneo, è invece inquadrabile in aspetti funzionali e quindi simbolici ben precisi che si discostano dall'arte in quanto tale, ma che tecnologicamente si accosterebbero a una produzione rituale legata a un fare artigianale. Se per le grandi pitture parietali in grotta possiamo recepire l'attività di uno o più abili operatori probabilmente riconosciuti dalla comunità per il loro saper fare, difficile è quello delle incisioni per le rappresentazioni aniconiche (un saper fare alla portata di più operatori indistinti?). Il grado di delega non doveva essere complesso quanto quello di un'attuale commissione distinta da precise categorie riconosciute, ma condivisa da tutto il gruppo, operatore compreso che probabilmente si compenetrava nel significato stesso della tradizione, in ogni caso legato a diversi livelli alla caccia e alla raccolta. È difficile infatti pensare che uomini indistinti si siano cimentati per propria banale iniziativa a dipingere le pareti di una cavità. Anche l'artista è un artigiano (conoscenze di tecniche, condivise con l'artigiano, per saper fare arte), ma l'artigiano non è un artista, o meglio, usufruisce degli espedienti professionali per dare un tocco estetico a supporti di tipo prettamente funzionale. L'arte può diventare artigianato nel momento in cui di un'opera se ne attua la riproducibilità con la conseguente perdita della sua originaria aura, oppure se resta vincolata dalla commissione (in entrambe, il cosiddetto artigianato artistico); ciò che differenzia l'arte dall'artigianato è la tecnica artistica (personale) rispetto a quella produttiva (condivisa). Non si esclude che in entrambe viga la creatività, l'inventiva, l'idea, un progetto alla base di uno schema operativo. Oggigiorno con “arte”, rispetto al passato (la Téchne e l'Ars, il saper fare degli antichi fino al rinascimento, il mestiere: impara l'“arte”..., ruba l'“arte”..., etc. La radice del sostantivo artigiano è dopotutto la medesima di arte), intendiamo l'espressione di valori non altrimenti rappresentabili, che vanno al di là della loro funzionalità, spesso legata all'esternazione di un sentimento (un messaggio profondo reso simbolico) e all'esposizione che accoglie sempre una fruizione di massa , col fine ultimo di comunicarne (o nascondere l'intimo comunicabile) quel medesimo sentimento individuale, moto del saper fare arte. Esiste una condivisione artistica, ma non sempre l'esatta interpretazione del significato, spesso personale di ogni utente, quasi fosse stato quest'ultimo a realizzarne l'opera.
A questo punto quale differenza sussiste tra il pittore della grotta di Altamira e Michelangelo? In entrambi i casi i soggetti presi in considerazione hanno un valore comunicativo non intimo (semmai, personale per lo stile?) rivolto alla comunità (entrambi i luoghi dove sono situati sono santuari, l'uno in grotta, l'altro in un edificio), che raccolgono un linguaggio simbolico rivolto a tutti, appannaggio di tutti, con valori condivisi da tutti su richiesta di una rappresentanza e tradizione politica e/o religiosa. Stesse considerazioni furono fatte in merito all'“arte” greca e romana. Una comunicazione scrittoria dal tono artistico è invece quella dei contemporanei murales metropolitani, messaggi estemporanei, destinati cioè a non restare per sempre (e proprio per questo il più delle volte sovrapposti), non di occasione, spesso declassati dai più come atti vandalici, ma che in realtà sono espressione di arte pura, irripetibile, variabile e priva di committenza, contestazione comunicata, codificata e condivisa da una determinata categoria di destinatari, ma anche dalle masse alle quali il messaggio risulta incomprensibile, non sempre codificato e condiviso: la lettura artistica e testuale in gradi differenti è insomma destinata a tutti perchè visibile a tutti (una letteratura in tal caso artistica di strada, come direbbe un epigrafista o un paleografo). Sembrerebbe davvero azzardato e fuori luogo, ma un confronto alla praticità preistorica (e non del significato della ritualità, totalmente distinto e distante per ambiente, tecniche e funzioni) è quello dei Raves, sopratutto quelli databili agli anni '90 del secolo scorso: si tratta di manifestazioni musicali e danzanti pirata, nascoste in eremi isolati e suggestivi che emulano rituali “primitivi” -la festa-trance, un'esperienza di sacro-selvaggio - di evasione dalla società dei consumi, organizzati da vere e proprie Tribe in chiave futurista e occidentale, dove il fulcro fondamentale resta l'arte della musica elettronica. Mark Harrison, in arte Spiral Tribe (nome in seguito dato all'intero suond system, fu il primo Dj che introdusse in questi raduni Acid House e Techno (o Tekno) opere d'arte fluorescenti influenzate dall'Op art (Optical art) che ritraevano geroglifici e immagini pagane su sfondo nero; una consuetudine protrattasi fino ad oggi e che fa si che l'osservatore entri in sintonia con le immagini e ne condivida il messaggio, riconoscendone l'appartenenza alla Tribe e alla festa: egli sa che quelle rappresentazioni sono tipiche del movimento raver e talvolta le associa rapidamente a questa o quell'altra tribe. Un suggerimento di natura etnoarcheologica potrebbe venire dal solo fatto che per una festa (un “rituale” del XX secolo) si produca “arte”: in tal caso non siamo di fronte ad una vera e propria arte (spesso ricalcante modelli precolombiani), ma a messaggi visivi, spesso commissionati a componenti della tribe riconosciuti per le loro capacità creative, che hanno il compito di trasportare l'utente del raduno, e che addobbano la festa per darne un tono cibernetico, psichedelico e alieno, con propaganda a volte spiccatamente antisistema. In sostanza, un valore funzionale che oscilla tra il murale metropolitano, il manifesto, il totem e il messaggio d'apparato che resta condiviso e apprezzabile da una particolare cerchia di persone sentitesi rappresentate da quei messaggi visivi, e dove il bilancio artistico è si presente ma inferiore rispetto a quello artigianale (il fenomeno dell'artigianato artistico e d'occasione). Non chiameremmo mai artista, bensì artigiano, un mastro vetraio che decora con “fare artistico” i vetri destinati ad una comune o lussuosa abitazione, nonostante la sua dilezione nel decorare secondo un proprio stile (piuttosto che la stereotipia di cataloghi su larga scala, ma non mancano neanche casi di albi o prontuari per originali prodotti dall'artigiano medesimo). In sostanza, ciò che rende l'arte differente dall'artigianato, e viceversa, è la sua destinazione (e quindi le intenzioni dell'operatore) che prende le mosse da un sentimento profondo. Motivo per il quale l'artista riesce più difficilmente a separarsi dalla sua creazione, rispetto all'artigiano. Può essere la religione quel principio tale da condurre il pittore a dipingere attraverso le proprie sensazioni ed esigenze? Questo è solo possibile qualora non sia condizionato dalla committenza! E se il pittore è profondamente partecipe a quelle sensazioni ed esigenze, come poteva esserlo quello di un gruppo del Paleolitico sup.? In tal caso il messaggio unanime di più persone è affidato a colui che sa disegnare e che produce un artigianato artistico comunque al servizio di un gruppo che usufruiva quei disegni parietali destinati a un “santuario” in grotta: agli occhi del resto della comunità l'opera sarebbe apparsa meravigliosa, ma la sua destinazione principale non era quella d'essere goduta nel presente e in eterno, avendo piuttosto una funzione probabilmente temporanea e non fine a se stessa, ma legata a scopi rituali ben precisi e funzionali nel vero senso della parola (cioè strumentali), e dei quali oggi ci sforziamo a dare diverse interpretazioni spesso tra loro discordanti. La funzione di un contemporaneo murale metropolitano è quello di lasciare il segno. La comunicazione underground di questo tipo riflette l'esigenza di evadere e di contrapporsi mediante un messaggio temporaneo, ma lo spirito di esecuzione resta fondamentalmente diverso rispetto al resto dell'ambiente: il messaggio è una considerazione, piuttosto che un atto di perorazione e pro o ex voto di un santuario; è un sentimento di avversione o approvazione che ne regola l'equilibrio artistico. Ciò che c'è di straordinario e identico nei due confronti resta la sintonia di più menti nei risultati di un'attività svolta. Anche i prodotti dell'arte sono strumenti di comunicazione ma fine a se stessa (è sovente che l'autore non espliciti i reali sentimenti spesso diversamente decodificati dall'osservatore e che ruotano intorno al reale significato, come al contrario accade per la pubblicità. La difficile interpretazione funzionale delle rappresentazioni preistoriche, invece, non viene dal fatto che siano arte, ma perchè rappresentano il residuo di una coscienza di gruppo ormai perduta nel passato, tra l'altro molto distante, e che merita di essere lentamente ricostruita purtroppo nella sua superficialità, nel contesto di appartenenza). Eppure il rappresentare in un modo piuttosto che in un altro, esponendo i soggetti rappresentati alla poetica autonoma dell'autore (in altre circostanze condizionata da “motivi ricorrenti”), è propria della produzione artigianale e artistica nonostante le committenze e le riproduzioni: ecco una definizione di stile (esemplare è la suddivisione in pittori dei recipienti a figure rosse di V e IV sec. a.C., che erano artigiani). Al contrario, l'artigianato dei grandi pittori rinascimentali, commissionati dal potere, diventa un comportamento opportunistico per fare arte (ne colgono cioè l'occasione personale), facendosi “quasi” arte assoluta nel momento in cui essi stessi esternano in quell'artigianato la loro opinione personale politica, sociale e intellettuale, scientifica e naturalistica (pensiamo alle tele di Leonardo), coronata dalla personale tecnica artistica: è qui che il bilancio artistico è di poco maggiore rispetto all'artigianato. I motivi a grata e a fasci incisi su ossa, pareti, lamine calcaree e ciottoli attribuiti (e attribuibili) alle fasi recenti del Paleolitico sup., sono la diretta sintetizzazione delle grandi pitture parietali realistiche del Paleolitico sup. antico; di queste ultime se ne osserva la pura ritualità della dipintura all'interno di cavità carsiche frequentate come santuari in grotta, dipinti da capaci individui di bande di cacciatori-raccoglitori, stessi fruitori delle pitture esposte, a scopo rituale (la perorazione alla convenzionale Grande Madre, attraverso la rappresentazione della stessa mediante il loro modo di vedere l'ambiente circostante, ben differente da quello che si potrebbe dire dell'arte impressionista, dove “l'impressione” è la reazione a una sensazione tutta personale che sollecita l'artista nel vedere la realtà). I motivi a grata su supporti mobili (ciottoli e lamine litiche) delle fasi più recenti, assumono finalità usufruite pur sempre dal gruppo (funzionalità), ma destinate a essere non sempre fruibili visibilmente come avrebbero invece fatto le grandi superfici immobili dipinte delle pitture rupestri realistiche e anche a sintassi geometrica (dove comunque si suppone una funzionalità rituale anche per gli autori medesimi, valida probabilmente per quel momento, ma non spontanea: motivo per cui molte delle rappresentazioni figurative risultano spesso sovrapposte, escludendone tra queste le sovrapposizioni intenzionali come i grandi mammiferi sottoposti al motivo a grata o a tratti). Cambiano gli usi rituali, rafforzandone ulteriormente un valore funzionale rappresentato con sempre più sintetizzazione, a proposito di un linguaggio simbolico legato a ritualità ben precise: in una comunicazione verbale, Donato Coppola esprime questo concetto esemplificando con il segno della croce che ogni fedele cristiano fa entrando in una chiesa o in intimità, o che riproduce sulle pareti di un santuario, o che porta sospeso sul petto (riferendosi soprattutto alle sole rappresentazioni Epigravettiane dell’Italia meridionale). Non può esistere un'unica interpretazione oggettiva che abbia validità universale, come dimostra quella di figure semicircolari campite da un motivo a linee parallele (probabilmente una resa delle superfici?), rappresentate sul neocortice di un ciottolo e interpretate come un insediamento capannicolo di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico sup. di Molí del Salt (Spagna). In tal caso il supposto valore artistico, privato dell'aura del bello, viene del tutto annullato, lasciando spazio a rappresentazioni (paragonabili ad un vero e proprio messaggio scritto) effettuate dalla mano di un artigiano, che incide (e/o dipinge) a nome del gruppo. Ridurre questi fenomeni ad artigianato non convince la nostra mente condizionata dal bello come arte, o dallo sgradevole o incomprensibile come forma d'intima espressione ermetica e di contestazione. Una convinzione tale da spingerci ad accostare ai simbolismi preistorici le opere di artisti contemporanei, dove il concettuale ha ben altri contesti, indirizzi e intenzioni (un Vassilly Kandinsky, un Mirò o Kate Haring, per taluni aspetti figurativi ispiratisi ai modelli preistorici, non avranno di certo dipinto per ingraziarsi Madre Natura garantendosi protezione, caccia e raccolta in abbondanza, ma per esprimere concetti ben al di là dal condivisibile, come lo può essere al contrario il simulacro di un santo di gesso nella nicchia di una cappella). O al contrario, siamo soliti a mitizzare figure di artisti, distintisi per aver curato vere e proprie opere d'arte, tanto da dichiarare “oggetti d'arte” ben altre di artigianato attribuite al medesimo autore (i simulacri in un tempio, in un cimitero, l'erma di un illustre personaggio, etc., alla pari di una foto scattata dal fotoreporter, rispetto ad un'altra che ritrae una dimensione intenzionalmente artistica). La sottile differenza tra arte e artigianato può comunque assottigliarsi ancora di più nel momento in cui le identifichiamo entrambe in riproduzioni di uno schema mentale, entrambe con un sostrato di immancabile diletto e inventiva, medesima condizione di falso/copia distinti dall'intenzionalità del produttore. Purtroppo le convenzioni ci condizionano nel proseguire a individuare “un'arte” preistorica nel timore di offendere l'ingegno umano, ribassandolo ad una più esatta forma di linguaggio simbolico di fattura artigianale, legata a qualcosa di davvero profondo, ma che coinvolge non il singolo ma un'intera comunità. Come visto per alcuni casi, non sempre è possibile fare una netta distinzione tra arte e artigianato, optando per bilanci. Questa suddivisione di semplificazione razionale non è peraltro discriminante nei confronti dell'artigianato rispetto all'arte. Entrambe sono pregevole strumento per soddisfare, chi più e chi meno, la volontà dell'uomo di comunicare qualcosa, ed è proprio questo che differenzia noi dalle altre specie animali diffuse sul pianeta Tutt'oggi siamo inibiti dal timore dei confronti etnografici per ricostruire e interpretare determinati processi archeologici. A ragione, non possiamo dare le medesime interpretazioni, che offrono le attuali comunità primitive ai loro simbolismi, ai segni rinvenuti dalla ricerca archeologica, cadendo nella tentazione di uniformare il fenomeno in una sua continuità nello spazio e nel tempo, trascurando la contestualizzazione dei singoli fenomeni. Se attualmente però interpretiamo i segni della nostra preistoria con termini e locuzioni quali “dea madre o grande madre, santoni o sciamani, invocazione alla fertilità, all'abbondanza, simboli propiziatori, reti e gabbie, etc.” lo dobbiamo soprattutto all'influenza dettata proprio da una lunga tradizione antropologica che ne osserva il comportamento umano di etnie contemporanee. Come avremmo interpretato questo fenomeno archeologico se queste etnie contemporanee non fossero mai esistite? Avremmo relazionato quelle immagini ad altre, magari ai dipinti dei cavalli di un Michele Cascella, o all'attuale cultura erotica? O ancora, come il prodotto di “raves” della preistoria? In questa sede non si intendono annullare tutte le interpretazioni date sino a oggi, a volte divergenti, ma di certo non possiamo parlare di certezze, in presenza di raffigurazioni lasciateci da un uomo ormai scomparso da millenni, e con lui la sua tradizione: solo con una buona ricostruzione archeologica dei contesti è possibile offrire un'interpretazione che si avvicini a quella del passato. In realtà l'approccio del confronto etnografico è usufruito come utile e riconosciuto metodo di ricerca per la ricostruzione di processi archeologici: non avrebbe alcun senso parlare di Etnoarcheologia. Ma si resta del parere che il confronto passato/presente resti giustamente tale, privo di legami e interpretazioni affrettate e magari dal tono fantarcheologico. Un confronto in tal senso ha l'obiettivo di ricostruire il modus operandi et vivendi dell'uomo preistorico del passato mediante suggerimenti provenienti dall'osservazione diretta di comunità allo stato primitivo nel loro contesto e nel loro tempo. E vale la pena rimarcare “nel loro contesto e nel loro tempo”. La letteratura etnoarcheologica del Sudafrica paragona i segni del motivo a grata locali alle rappresentazioni di forme fosfeniche, fenomeni entoptici raggiunti da alcuni sciamani, autorità garanti delle aspettative della comunità, durante la cosiddetta prima fase di alterazione dello stato di coscienza, mediante l'intensa concentrazione, il movimento ritmico e la fame, e presso ulteriori realtà primitive con l'assunzione di prodotti derivati da piante psicotrope o la deprivazione sensoriale, l'iperventilazione, il dolore e l'emicrania, come documentano le comparazioni neuropsicologiche applicate dall'archeologia ed etnologia in merito all'arte rupestre di moderne e contemporanee comunità dell'Amazzonia, Sudafrica. Suggestivo e altrettanto distante è il curioso accostamento che del motivo a tratti paralleli può farsi rispetto ai dipinti corporali presso la tribù brasiliana dei guerrieri Kayapó; non a caso il nero e il rosso della “pelle sociale” sono rispettivamente «i simboli della repressione e accentuazione sensoriale», e rappresentano «l'accentuazione della sessualità e procreatività al servizio della riproduzione sociale», una contrapposizione equilibrante nella vita politica, sociale e rituale. Qui non siamo in presenza di arte, ma di una comunicazione visiva sociale per mezzo di simboli. Simboli non dissimili li ritroviamo nei motivi a sintassi astratta su ciottoli o lamine calcaree dell'Epigravettiano pugliese e lucano, a tratti paralleli disposti a tappeto e a bande scalariformi, ottenuti mediante l'incisione di linee raggruppate in fasci ortogonali, con o meno risparmi campiti di pigmenti rossi, attribuibili ai riti di perorazione rivolti alla Grande Madre. Espressione simbolica che ben potrebbe accostarsi alle raffigurazioni femminili europee, sulle quali può sovrapporsi il motivo a grata. Siamo di fronte a due interpretazioni per certi aspetti simili e che sfociano entrambe nell'istanza simbolica di fertilità, l'una ambientale, l'altra umana: e la riproduzione sociale, d'altro canto, è lo strumento più efficace per la sopravvivenza del gruppo e della propria stirpe. Come accade per la pittura vascolare di età classica, che indirettamente ci propone l'iconografia delle Pìnakes scomparse, allo stesso modo è possibile ipotizzare la diffusione dei medesimi motivi geometrici paleolitici su diversi supporti deperibili, pelle compresa (ipotesi avanzate per le Pintaderas del Neolitico antico. Ma è ovvio si tratti di confronti che non determinano una diretta continuità simbolica e culturale nello spazio e nel tempo, del Paleolitico europeo con quello Brasiliano. È opportuno quindi prendere in considerazione anche l'interpretazione sciamanica, con le altre, a un livello imparziale, in assenza di quei dati archeologici collaterali che in Europa rammenterebbero di sciamani, se non mediante alcune raffigurazioni parietali interpretate come “stregoni” o “testimoni”, dipinti da comunità oramai scomparse e lontane nel tempo, rispetto a quelle persistenti in un contesto preistorico per esempio sudafricano, abbastanza a noi recente e geograficamente ben più distante da quello Europeo, nonostante simile sotto taluni aspetti, senza quindi generalizzarne un modello di comportamento applicabile a taluni contesti preistorici moderni, qualora documentati, e soprattutto contemporanei. È quindi inappropriato giungere a conclusione che le raffigurazioni del Paleolitico di tutto il pianeta siano esito di fenomeni entoptici e psicogrammi: ciò non spiegherebbe affatto la ripetitività tradizionale della sintassi geometrica (e anche della resa tecnica: sulla trasmissione del sapere artigianale cfr. ) in precisi contesti come la Puglia e la Basilicata! Donato Coppola scrive che «la riproduzione e l'interpretazione visiva della realtà si concettualizzano nell'elaborazione dei segni che esprimono la consapevolezza universale di qualcosa di immateriale, metafisico, comunicato attraverso un linguaggio semplice, immediato, comune. Un vero e proprio linguaggio simbolico». Attualmente, se da un lato questi segni sono interpretati, come sarà per le figure femminili del Maddaleniano V e del Neolitico, un linguaggio simbolico accostato a probabili immagini divine, dall'altro se ne ipotizza la riproduzione di motivi geometrici la cui interpretazione alla comunità (essenza della forza generatrice visibile e agognata dall'uomo di tutti i tempi, quindi una decodificazione del motivo geometrico in un animale, ovvero in un elemento naturale richiesti dalla comunità, o ancora, aspettative, totemismo, desiderio di forza identificata nell'animale, prestanza nell'attività venatoria, etc.) spettava a pochi eletti rispettati dalla comunità stessa.
Fonte: http://www.archeomedia.net/wp-content/uploads/2015/12/Artisti-o-artigiani-Stasolla-2015.pdf

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