Mi chiamo Arturo. Sono una donna simpatica. Non bellissima. Un tipo. Ma soprattutto simpatica. Almeno questo è quel che dicono più spesso gli uomini a proposito di me, perciò ho deciso di non offendermi quella sera in cui i miei amici mi hanno chiamata così per la prima volta. Ho un tatuaggio sotto la spalla sinistra, piccolo piccolo, che riporta una A ricamata alla maniera delle signore di corte. La A sta per “Arturo”, ma la decorazione sta per “donna”. In bagno ho messo uno specchio ovale accanto alla parete della doccia, così ogni volta che mi lavo i capelli resto fissa con lo sguardo sulla lettera, che è orgogliosa iniziale del mio nome. Non sono più in molti a chiamarmi Arturo, anzi, ora che ci penso, forse non c’è proprio più nessuno che mi chiama così. Non ha molto senso continuare a portare un nome se nessuno lo usa, ma io, se mi fermo a pensare a chi sono davvero, mi dico che non sono mai stata niente di diverso da Arturo. Quando sento dire “Buongiorno Denise” a volte neanche mi giro. Il lavoro che faccio adesso mi piace e sono contenta della mia nuova casa e di questa vita semplice. Lavoro in una radio locale. Ho un contratto a sei mesi, e l’ho firmato la scorsa settimana, quindi per i prossimi cinque sono tranquilla. E’ la terza volta che lo firmo e ogni volta è un’emozione sempre maggiore. Non ci chiamano più disc jockey, noi che scegliamo le canzoni, perché i dischi non li abbiamo più da anni, in radio. Nessuno li ha, per fortuna. Si rovinano, sono ingombranti e fanno perdere un sacco di tempo. Io incastro numeri, marketing, gusti del pubblico, generi, classifiche e popolarità, per definire algoritmi complessi che facciano fare ad un computer, in una frazione di secondo, quello che un disk jockey, avrebbe fatto molto più lentamente, dopo dieci anni d’esperienza. Grandioso: l’esperienza al servizio delle macchine per far lavorare comodamente giovani leve che di quell’esperienza non avranno bisogno. Ma hanno delle belle voci e riescono a contare le parole una per una, perché si incastrino perfettamente nei pochi secondi a loro disposizione tra un disco e l’altro. Io ogni tanto dietro il microfono ci vado ancora, ma il più delle volte conto i minuti che mi separano dalla fine della trasmissione perché mi annoio disperatamente. Così torno tra i miei codici e lì mi metto a fantasticare a proposito di cosa staranno facendo tutte quelle persone che ascoltano la radio. Li immagino nelle situazioni più disparate ed è solo allora che le canzoni iniziano a suonarmi in testa, come quando le sceglievo una a una per la gente del Bettilù. Non esiste neanche una canzone che non abbia una storia e non esiste neanche una storia che non abbia almeno una canzone. E questo è quanto c’è da sapere per fare davvero bene questo lavoro. Nel tempo si affinano le doti, si riconoscono i suoni e le emozioni, ci si affida a un colore , a una parola, si delineano contorni e situazioni. Si scelgono i personaggi, le loro intenzioni, le azioni e i cuori. Anche solo immaginarne i cuori è sufficiente. Il più delle volte si indovina. Di tutti quelli che accendono la radio in quel momento, ce ne sarà anche solo uno con quella storia lì. E la missione sarà compiuta. Per la legge dei numeri bisogna puntare a tutti gli altri naturalmente, non a quell’unico scemo che in quel momento guarderà la radio come se quella gli stesse parlando. Ma, con un po’ d’attenzione, si potrà cogliere il momento esatto in cui tutti gli altri saranno distratti e mandar su la canzone per quell’unico ascoltatore senza nome né faccia. Oggi è come allora. Quasi. Un po’ più complesso e senza dischi veri. Ed esattamente come allora, funzionerà meglio, se prima ti sarà morto il cuore. Un cuore che muore è morto. Basta. Finito. Va in un posto dove stanno tutti i cuori morti e da lì spara sentenze su quello che ha preso il suo posto, spettegolando con i compagni ex-cuori, morti anche loro. Hai visto? Hai visto cosa ha fatto? E lei! Guardala là, non ci si crede! Ferma , impassibile, come se lui fosse stato messo lì proprio per non farle sentire più niente. E il bello è che lei si vanta pure, di averci il cuore nuovo, tutto bello pulito e comodo, comodo.
Quando a qualcuno muore il cuore succede in un istante. Dopo quell’istante ha, nel petto , due o tre giorni di vuoto e poi, finalmente, gli nasce un cuore nuovo. Il modello Cuore Personal 2.0, confrontato all’originale in dotazione alla nascita, è molto più efficiente. Non si dispera, è un buon consigliere, valuta con attenzione, raramente sobbalza e soprattutto è studiato per la costruzione di relazioni interpersonali sane, futuribili e stabili. Sistema frenante ripartito per una maggior sicurezza e doppio airbag. Insomma, il nuovo cuore funziona che è una bellezza. E solo quando si è in possesso di questo nuovo modello, si può giocare davvero bene con le canzoni, perché nessuna di quelle che si conoscono, né di quelle che si ascoltano per la prima volta, potrà farti a pezzi. Il giorno in cui il mio cuore è morto non ho sentito dolore. E Arturo è morta con lui. Quella sera me ne stavo a bere nel locale di un amico, mentre la band cantava canzoni pericolose e ridevo con lui tra una canzone e l’altra pensando che qualcuno, i ragazzi della band, doveva averli avvertiti se stavano suonando in quel modo. Come fosse un test. Il mio amico mi chiese: «Come va?»
E io gli risposi : «Credo bene, perché non fa affatto male.»
Lui disse «Bene.»
E io aggiunsi «Già.»
Poi siamo andati a fare colazione coi cornetti caldi come se niente fosse. Non so con esattezza quando poi il modello Personal 2.0 si sia auto-attivato, ma fino ad ora non ha sbagliato un colpo. L’unica noia è data dai commenti fastidiosi di quelli che avevano conosciuto il vecchio cuore e ora compiangono lo scomparso, per egoismo. Io sto una meraviglia, dico. Lo dico perché fa parte del protocollo, che va seguito alla lettera dal momento dell’autogenesi del 2.0. Insomma, mi trovo bene, ce l’ho ormai da quasi dieci anni e pare che sia ancora in garanzia. Non sono una persona diversa, sono sempre io, solo molto meglio. Arturo non ce l’avrebbe mai fatta in una vita così. Una vita felice. Sono sposata da cinque anni. Ho sposato un altro deejay. Anche a lui deve essere morto il cuore qualche anno fa, per questo ci siamo innamorati e ancora lo siamo. Sono felice di andare il sabato a pranzo da mamma e di incontrare i nostri amici il venerdì sera per una birra in centro, una sola. Mi va bene tutto e non mi lamento mai, perché io ho il massimo che si possa desiderare, dopo tutte quelle peripezie e avventure strampalate. Lo ripeto sempre a me stessa, ogni volta che guardo quella A. Nessuno dei ragazzi del Bettilù, me compresa, s’è mai chiesto dove fosse finita Arturo. Eravamo tutti troppo impegnati ad essere felici e a traslocare ciascuno in una casa di cui pagare il mutuo, in quarant’ anni di comode rate, intestate ai nostri genitori. Arturo non li avrebbe voluti mai quaranta anni di rate e poi si sarebbe ubriacata troppo spesso per ricordarsi di andare in banca a coprire il conto in rosso. Non penso a lei così tanto come potrebbe sembrare, ma in questi giorni è quasi estate e quando la vedo arrivare così all’improvviso, le immagini di quei giorni in cui ero lei, mi si piantano davanti ad ogni cosa che faccio. L’estate del 2004 è una specie di magia: a volte sembra che non sia mai finita, ricompare per un secondo in un odore, un rumore, quasi a dire “Buh! Indovina chi è?”. Sospesa nel tempo, resto immobile a meravigliarmi della sua persistenza. E’ come se lei fosse rimasta esattamente dov’è sempre stata e tutto il resto le sia passato attraverso. Così mentre il mondo passa, l’estate del 2004 rimane. E anche il mio nome, Arturo, come la A sulla mia pelle, non va via.
(Da “Cento Giorni al Bettilù” di Barbara Venditti)