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Aru michi (あるみち, A Road). Regia, montaggio, fotografia, suono: Sugimoto Daichi. Interpreti (nel ruolo di loro stessi): Sugimoto Daichi, Katsukura Yuta, Sugimoto Rika, Ikariishi Masato, Kondo Yōji. Produttore: Miki Ohi. Durata: 85’. World premiere: PIA Film Festival, Tokyo, 16 settembre 2015. Link: Intervista al regista (in inglese), dal catalogo del Berlin Film Festival 2016.
Daichi è un ragazzo impegnato negli esami per entrare all’università. Fra una corsa in moto con un suo amico ed il ricordo di quando era un bambino e catturava le lucertole durante l’estate, Daichi sembra non riuscire a trovare la sua strada. Finalmente riesce ad entrare in una scuola di cinema dove incontra altri due ragazzi, l’innocenza e la purezza del passato però sembrano ciò che manca dalla sua vita. Presentato all’ultimo festival di Berlino nella sezione Forum, A Road è il lavoro di debutto di Sugimoto Daichi, film che ha vinto il Grand Prix al Pia Film Festival dello scorso anno e che già era stato proiettato durante il Tokyo International Film Festival lo scorso ottobre. Si tratta indubbiamente di un interessante esperimento, a metà strada fra il self documentary, anche se non si tratta in nessun modo di un documentario per quanto spesso venga catalogato come tale, e un leggero saggio-riflessione, molto leggero in verità, sull’innocenza e lo stupore infantile che vanno persi durante la tarda adolescenza. Il tocco realistico che lo caratterizza e che astutamente Sugimoto ha adottato per fare di necessità virtù - il film è prodotto, girato interpretato montato da lui stesso - ben si adatta a descrivere quel periodo di passaggio dall’adolescenza alla cosiddetta età adulta, ovvero e meglio, il passaggio verso la vita universitaria che è l’anticamera della vita adulta. Per di più si tratta delle vicende di un giovane ronin, cioè di un ragazzo che falliti gli esami di ammissione ad una data università, si è dato un altro anno di tempo per studiare di più e provare ancora una volta ad entrare nell’università che vorrebbe frequentare. Questo espediente narrativo, che presumiamo essere derivato direttamente dall’esperienza personale del regista (da cui l'aspetto quasi-documentario del lavoro), permette di intensificare ancora di più il momento di passaggio vissuto dal protagonista. Finite le superiori ma non ancora deciso sul futuro, il giovane si trova in una sorta di limbo esistenziale in cui tutto è possibile ma allo stesso tempo proprio per questa assenza di contorni ben definiti, la spinta verso il ricordo dell’infanzia è molto forte. Ma, e qui sta forse il maggior pregio del lavoro a livello di scrittura e di soggetto originale, non ci si concentra su quanto si stava bene da piccoli e sui ricordi in quanto tali, quanto piuttosto sull’intensità che le piccole cose riuscivano a dare alla vita da bambino. Nel caso del nostro protagonista si trattava di catturare delle lucertole durante il periodo estivo, un atto che riusciva ad assorbirlo come in stato di estasi; nei primissimi minuti vediamo infatti un bambino filmarsi assorto nelle sue riflessioni sulla caccia alle lucertole. Certo, A Road è in tutto e per tutto un jishu eiga, un lavoro amatoriale indipendente, e per questo difficile da giudicare secondo gli standard cinematografici che di solito usiamo. Nel senso che non si tratta di un debutto dirompente e, a parte l’idea di fondo, non aggiunge niente di nuovo al cinema giapponese contemporaneo, non crea nessuno scarto stilistico, autoriale o generazionale che dir si voglia e nemmeno indica nuove strade espressive come altri lavori presentati al PFF nei decenni scorsi erano stati capaci di fare (Tsukamoto, Sono e altri). Anche gli argomenti trattati non rappresentano di certo una peculiarità del periodo attuale ma sono dei sentimenti che un po’ tutti hanno vissuto, chi in un modo e chi in un altro. Insomma, si tratta di un film di difficile classificazione: non ha le caratteristiche produttive di un film vero e proprio (cosa che è anche un pregio), non è di certo un home-movie, anche se l’estetica è quella, e non si tratta neanche come già detto di un documentario personale sullo stile di quelli realizzati ad inizio carriera da Kawase Naomi. La ricezione e la fruizione del film allora, qui più che in altri casi, dipende e cambia molto in relazione a che cosa ci si aspetta dalla sua visione, come ibrido a metà strada fra un lavoro universitario e un esperimento di home-movie. A queste condizioni, ma solo a queste condizioni, il film funziona. [Matteo Boscarol]
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