Aveva ragione Morpheus nel 1999 quando avvertiva noi spettatori che "Matrix è ovunque". Per i nativi digitali il fenomeno Matrix è stato quello che ha riversato per primo e scientemente le sue numerose diramazioni su tutte le piattaforme culturali. Personalmente la trilogia dei registi Larry e Andy Wachowski, composta da (1999), The Matrix Reloaded (2003) e The Matrix Revolutions (2003), è stata un culto transmediale che ho coltivato fino al parossismo nerdistico.
Dagli inserti di Ciak che svisceravano le fonti del mito (che piacere constatare che metà di quel materiale l'avevo già visionato/adocchiato!) ai videogiochi che si inserivano funzionalmente nella cronistoria fino ad arrivare al primo riconoscimento ufficiale da parte di Hollywood del mondo degli anime giapponesi con il coraggioso The Animatrix, ho afferrato con tentacoli di seppia quanto più possibile del mondo dietro la matrice. I fratelli Wachowski, al loro secondo film, (con devozione apostolica a quei tempi recuperai anche il loro esordio Bound - Torbido inganno, trasmesso ad orari irragionevoli su Canale 5, patinato thriller finto-provocatorio adatto proprio al pubblico generalista della rete ammiraglia Mediaset in una calda notte d'estate) in quegli anni sembravano aver conquistato la vetta del cinema e volerla indirizzare verso un estetismo geek di impareggiabile fattura.
Il controllo della loro creatura artistica era pari alla loro ambizione. Per i due ultimi episodi riuscirono a far firmare al potentissimo produttore Joel Silver una clausola che li dispensava dal rilasciare interviste promozionali. Ciò dava la misura della loro operazione: il loro intento era quello di ammantare di mistero e silenzio autoriale una saga action/fantascientifica che puntava su toni inusitatamente speculativi. La programmaticità alta di un concept alimentato da un'ininterrotta revisione durata anni era rintracciabile dall'evidente simbolismo disseminato a piene mani già nella scelta dei nomi dei personaggi. Neo, il nome del protagonista interpretato da Keanu Reeves, è il vistoso anagramma di One, l'Unico, da noi tradotto ancora più misticamente con l'Eletto. La iattanza dei fratelli Wachowski prosegue con intermittente riuscita, come ad esempio l'ardito caso di Trinity (lei sarebbe lo Spirito Santo???) o i più scontati Cypher e Seraph.
Il calderone religioso da dove attingono i fratelli americani (nota a margine: sulla vita di Larry/Lana qualche studios farà un film prima o poi) confluiscono influssi cristiani, afflati buddisti e l'insopportabile New Age (non so voi ma io a certi slogan che dovrebbero essere illuminanti, quali "Conosci te stesso" o "Non conosci una persona finché non ci combatti" sbuffo d'ovvietà). In un universo dichiaratamente derivativo e che arriva finànco a rubacchiare (leggi: sindrome tarantiniana), gli omaggi culturali spaziano dalla stanza 101 di orwelliana memoria fino all'insistita analogia con l'Alice carrolliana. Ma in fondo queste sono innocue citazioni di secondo grado che non appesantiscono più di tanto l'ordito della trilogia. Il carattere (potenzialmente) fondativo di Matrix sta nella sua natura intrinsecamente digitale. L'idea che il mondo che percepiamo con i nostri risibili sensi sia una finzione indottaci da un ente esterno è stata scandagliata da secoli. L'inquietudine che questa possibilità possa diventare reale è aumentata esponenzialmente con l'avvento di macchine in grado di fornire una radicale immersione visiva e sonora.
In primis, come sempre, il cinema (tutto nasce con lo spavento degli spettatori alla visione de L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat) ed in seguito i calcolatori che rispondono in tempo reale agli input dell'uomo. L'avvento di macchine più intelligenti di noi (il computer Deep Blue che batte per la prima volta il campione di scacchi Kasparov ne è l'iconografico corollario), unito alla fobìa apocalittica per un convenzionale cambio di millennio fornisce lo zeitgeist adatto al successo del primo episodio di Matrix. La pellicola del 1999 mostra che la realtà esperita passivamente da noi umani è solo una simulazione digitale creata dalle macchine all'unico scopo di trasformarci in energia assimilabile dai loro circuiti. Ancora una volta il genere cyber diventa il sottotesto ideale per vaticinare un prossimo/vicino impero delle macchine che ci riporta alla distopia dickiana. La trilogia di Matrix, da questo punto di vista, non innova granché limitandosi ad aderire a tanta fantascienza post-bellica.
Il vero tratto peculiare, si diceva, è nella trattazione profondamente digitale di questa impalcatura di base. Le migliori invenzioni dei fratelli Wachowski sono quelle che danno visualizzazione pratica a meccaniche consolidatesi nella nostra società ipertecnologica. Partiamo dalla caratteristica sicuramente più famosa della saga: l'utilizzo del bullet time. Il completo controllo del singolo frame che può essere freezato, accelerato, rallentato, panoramicizzato per dare risalto virtuosistico sconvolge gli scenari del cinema di finzione. L'immagine bidimensionale acquisisce con ingombrante chiarezza l'onnipotenza di quella 3D. La telecamera gira intorno al singolo attimo stoppato e con così tanta definizione da riuscire a riprendere la scia delle pallottole. Un altro segno della cinematografizzazione dei meccanismi di altri media è l'utilizzo dei vari set come veri e propri dungeon caricabili da postazioni remote.
Neo può allenarsi in un tempio shaolin e completare il suo addestramento dopo qualche secondo, il tempo di qualche stringa di sistema, provando un gigantesco salto da un grattacielo metropolitano. La trilogia di Matrix, nelle sue parti migliori, esplora in direzioni stupefacenti le potenzialità di un mezzo non più analogico. Il combattimento in The Matrix Reloaded tra le copie dell'Agente Smith e l'Eletto, oltre a fare venire il cardiopalma per ritmo e coreografie (sì, senza Yuen Wo Ping la saga non avrebbe avuto lo stesso impatto), mostra ancora una volta le meraviglie della libertà di non dover rispondere a canoni vetusti di verosimiglianza. Tutto questo discorso sul corso intrapreso dalla cinematografia di genere viene al contempo demineralizzato dagli stessi fratelli Wachowski. Se il primo The Matrix riusciva a stupire ad ogni snodo narrativo pur senza rinunciare a consolidati meccanismi proppiani, il secondo e il terzo episodio vi si adagiano mollemente come un qualsiasi blockbuster.
La città di Zion è politicamente retta da Consiglieri, Comandanti, Capitani alla maniera di un modesto RPG. La scenografia dell'unica roccaforte umana rinuncia all'interessante monocromia industrialista verde/blu della matrice per optare su un posticcio tribalismo. La narrazione dell'assedio e della momentanea stasi di Neo aggiunge personaggi di imbarazzante legnosità psicologica, dalla virago Niobe alla famiglia indiana che spiega il karma con due battute di dialogo. È come se ad un certo punto i fratelli Wachowski, accortisi del freddo che fa sulle vette (e spinti dalla lunga mano di Silver, non dimentichiamolo), avessero deciso di tornare nella più mite valle.
L'involuzione (altro che Revolutions!) della filosofia della saga si manifesta con la terribile scelta di antropomorfizzare il leader della città delle macchine facendolo urlare con la voce grave di un tipico villain. I dilemmi sulla fallace percezione, sull'interdipendenza uomo-macchina, sul controllo, sul rapporto del Creatore nei confronti della propria Creatura rivelatasi indomabile, sulla necessità dello sbilanciamento, si risolvono frettolosamente nell'arco dello scontro finale Neo contro Smith, bagnato da una pioggia troppo epica. L'Eletto si sacrifica nella maniera più spettacolare possibile per noi/loro e tanto basta al popolo bue che festeggia la tregua (e la fine della trilogia) come una vittoria. E pazienza se le più angoscianti domande restano inevase, basta il fatto che "la guerra è finita". Si scopre così che gli abitanti di Zion vedevano tutto secondo un'ottica manichea. Chi è allora più binario: l'uomo o il computer?