USA :::: Giacomo Gabellini :::: 11 novembre, 2011 :::: Secondo Noam Chomsky le brame egemoniche covate dagli Stati Uniti rispetto all’instaurazione di un sistema economico mondiale imperniato sulla centralità di Washington non risalirebbero alla fine della Seconda Guerra Mondiale – che sancì di fatto l’inizio della Guerra Fredda – ma al 1917, data in cui l’avvento dei bolscevichi al potere in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre decretò la formazione di una pericolosa minaccia rispetto alla coesione sociale dei paesi capitalisti.
La maturazione delle condizioni necessarie che permettessero alle imprese statunitensi di conquistare e dominare i mercati mondiali passava quindi per la disintegrazione della minaccia comunista, nell’ambito di un conflitto che si configurò fin dai primi istanti come una contrapposizione frontale nord – sud.
Un indispensabile stadio preliminare da raggiungere in vista della produzione degli anticorpi necessari a minare la diffusione dell’epidemia bolscevica era rappresentato tuttavia dall’acquisizione, da parte degli Stati Uniti, della posizione dominante rispetto ai propri avversari tattici (cioè a breve termine) britannici, la cui potenza politica ed economica si estendeva su larga parte del pianeta.
I finanziamenti che Washington, sotto l’egida dell’idealista Woodrow Wilson, accordò alla Gran Bretagna nel corso della Prima Guerra Mondiale non vennero concessi a fondo perduto, ma contenevano la non troppo implicita pretesa che Londra, per estinguere il debito contratto, restringesse il proprio campo d’influenza smantellando le proprie basi militari dalle isole dell’Atlantico (Giamaica, Bahamas, ecc.) e aprisse il controllo, monopolizzato fino ad allora da Londra, dei commerci internazionali alla penetrazione degli strateghi del capitale statunitensi.
La strategia statunitense si dispiegò però su più piani, da un lato attraverso l’estensione della propria influenza economico – militare all’Africa occidentale, all’Asia meridionale e al Golfo Persico, dall’altro per mezzo della sottomissione definitiva dei propri alleati europei sancita a Jalta, unitamente alla suddivisione del pianeta tra USA ed URSS.
Nonostante la maggior parte degli economisti ritenesse che il passaggio dal keynesismo di guerra adottato da Franklin Delano Roosevelt ad un economia riconvertita e adattata al tempo di pace avrebbe condotto il sistema produttivo del paese ad una crisi affine (se non peggiore) a quella del 1929, gli Stati Uniti seppero sfruttare il successo maturato al termine della Seconda Guerra Mondiale per scongiurare questo rischio.
L’espansione dell’influenza statunitense all’Europa e al Giappone garantita dalla propria soverchiante capacità militare e i colossali investimenti contestuali al Piano Marshall escogitato (ufficialmente) per ricostruire i paesi sconfitti gettarono infatti le basi per la formazione del sistema economico mondiale tanto agognato dai comparti decisionali americani, che a quel punto poterono concentrare i propri sforzi esclusivamente sull’opposizione totale (muro contro muro) all’Unione Sovietica.
Il Cremlino intendeva principalmente brandire la spada dai paesi vessati e dissanguati dal colonialismo europeo, così come fece Lenin in occasione del congresso di Baku del 1920, quando aveva astutamente scelto di convocare i rappresentanti dei “popoli oppressi” affinché confluissero in massa nell’orbita sovietica.
Onde evitare che le strategie ordite da Mosca sortissero tali effetti, Washington effettuò le proprie contromosse attraverso il Segretario di Stato Dean Acheson, il quale sostenne apertamente le rivendicazioni indipendentiste provenienti dalle colonie invitando i propri alleati europei ad abbandonare l’anacronistica politica coloniale e a riconoscere ai propri protettorati il diritto all’autodeterminazione.
Tuttavia, Gran Bretagna e Francia, assai restie a seguire tali indicazioni, giunsero a coalizzarsi assieme ad Israele per assestare un duro colpo all’incontrollabile colonnello egiziano Giamal Nasser – che aveva avuto l’impudenza di nazionalizzare il Canale di Suez – onde ridimensionare gli aneliti indipendentisti delle colonie e riallineare definitivamente l’intera area nordafricana sull’asse Londra – Parigi.
Nei giorni a cavallo tra ottobre e novembre del 1956, la coalizione anglofrancese condusse in porto l’operazione militare, ma commise un clamoroso autoaffondamento internazionale, poiché l’ONU condannò l’aggressione, i paesi del Commonwealth espressero la propria aperta contrarietà, l’Unione Sovietica minacciò pesanti ritorsioni e, soprattutto, il Presidente statunitense Dwight Eisenhower scelse di passare alle maniere forti disponendo che il Ministero del Tesoro vendesse sterline alla Borsa di New York.
Sul piano economico, il quadro della situazione fu ben delineato da Francois Perroux, il quale scrisse che “Nella pratica le concezioni del liberalismo si scontrano con la realtà economica, nella quale esiste la già formata ‘disomogeneità delle strutture’, ed a causa di tale disuguaglianza le nazioni più potenti e forti mirano ad assicurare per se stesse il massimo vantaggio economico a scapito delle restanti altre”.
In altre parole gli Stati Uniti sfruttarono tale “disomogeneità di strutture” per avvalersi del proprio poderoso complesso finanziario allo scopo di sostituirsi alla Gran Bretagna in qualità di polo geoeconomico capace di proiettare il proprio sistema produttivo su un’ampia porzione di pianeta e della presenza di un potente contraltare come l’Unione Sovietica per trovare la legittimazione concettuale ed ideologica necessaria per ergersi a centro geopolitico di riferimento dell’intero blocco europeo – occidentale.
Il costrutto ideologico rappresentato dall’ombrello protettivo statunitense relativo al parossisticamente agitato spauracchio sovietico funse da ipoteca alla subordinazione europea ed estremo – orientale al sistema politico, economico e culturale propugnato dagli Stati Uniti.
La Commissione Trilaterale nacque proprio con lo specifico obiettivo di ottimizzare tale processo, ripartendo in tre zone – America del Nord, Estremo Oriente/Pacifico ed Europa – lo spazio economico dominato dagli stati Uniti nell’ambito di una strategia di accerchiamento dell’Heartland e di isolamento dell’Unione Sovietica.
Il fatto stesso che la Commissione Trilaterale scaturì dai marchingegni strategici escogitati dagli influentissimi David Rockefeller e Zbigniew Brzezinski (entrambi membri del Foreign Office Council) conferisce alla stessa una particolare, straordinaria rilevanza.
In quel pensatoio (think tank) maturò l’idea di capitalizzare al massimo la “disomogeneità” del polo geopolitico e geoeconomico statunitense attraverso l’omologazione economica delle aree “laterali” estremo – asiatica ed europea grazie all’introduzione di specifiche valute transnazionali (euro e yen orientale) in grado di favorire l’integrazione delle due macroregioni nei meccanismi economico – finanziari necessari a puntellare la supremazia degli Stati Uniti e del dollaro come moneta di riserva internazionale.
La strategia escogitata da tale pensatoio mirava all’indebolimento graduale ma inesorabile dell’assetto socialista in base al quale era strutturata l’Unione Sovietica in vista di una sua definitiva integrazione nel modello “trilateralista” capace di favorire l’estensione del verbo atlantista attraverso l’inserimento dello stesso nel contesto dei processi di mondializzazione.
Tuttavia, il declino dell’Unione Sovietica, dovuta a una numerosa serie di convergenze, accelerò notevolmente i tempi previsti da Rockefeller, Brzezisnki e i loro colleghi “trilateralisti”.
La svalutazione del rublo legata alla disastrosa opera di ristrutturazione economica (perestroijka) promossa da Mikhail Gorbaciov e proseguita dal suo successore ed ex braccio destro Boris El’cin favorì l’aggancio dell’economia russa ai meccanismi dominati dal dollaro e la penetrazione della grande finanza angloamericana – attraverso i ben noti “oligarchi” – nei settori strategici russi in via di liquidazione per mezzo della “shock therapy” promossa dall’economista friedmaniano (e quindi ultraliberista) Jeffrey Sachs.
La voragine apertasi con il crollo dell’Unione Sovietica fece deflagrare la logica bipolare che costituiva la struttura portante della Guerra Fredda, sulla base della quale erano state orchestrate tutte le precedenti strategie politiche ed economiche.
L’unipolarismo statunitense appena instauratosi dovette fare i conti con una situazione inedita, dalle prospettive ignote e dalle innumerevoli incognite che rendevano estremamente arduo il compito di escogitare nuove, efficaci strategie al passo coi tempi.
Il fatto che l’Unione Europea e il consolidamento dello “zollverein” (l’unione doganale tedesca caldeggiata da Friedrich List) estremo – orientale, le cui istituzioni erano state sollecitate dai “trilateralisti” in funzione anti – sovietica e non post – sovietica, presero forma nel momento in cui il “comunismo reale” cessò di esistere, scompaginò notevolmente le strategie statunitensi perché conferì alla coalizione del Vecchio Continente e dell’Asia orientale (ancora in via di formazione) lo status di nuovi attori geopolitici concorrenziali e assegnò (specialmente) alla moneta europea il pericoloso ruolo effettivo di rivale del dollaro.
Le scosse telluriche provocate dal ridisegnamento della carta geografica eurasiatica non erano state previste dai “trilateralisti”, oltre che dai pianificatori del Pentagono e della Casa Bianca.
Il direttore della CIA William Webster fu però tra i primi (e pochi) a cogliere l’entità di tale pericolo, ammonendo che “Gli alleati politici e militari dell’America sono ora i suoi rivali economici”, annunciando di fatto l’imminente scatenamento della guerra commerciale statunitense contro l’Europa, condotta a suon di colpi bassi (come l’imposizione unilaterale e ingiustificabile dei dazi sulle importazione dell’acciaio europeo) e con il chiaro intento di riaffermare il predominio statunitense.
In altre parole, il ruolo del dollaro come garante della supremazia geopolitica statunitense perse definitivamente la propria inattaccabilità.
L’ascesa al potere di Vladimir Putin irruppe in tale contesto, rovesciando letteralmente l’inerzia innescata da Gorbaciov ed El’cin e restituendo alla Russia un ruolo determinante nell’affermazione dei rapporti di forza internazionali.
Sull’onda di tale sconvolgimento (secondo l’analista Aymeric Chauprade, l’ascesa di Putin conterrebbe una potenzialità destabilizzante rispetto agli equilibri mondiali superiore all’11 settembre 2001), alcuni soggetti regionali come l’Iran valutarono l’ipotesi di formare un’apposita Borsa del petrolio, indicizzata all’euro, alternativa a quelle di Londra e New York.
Saddam Hussein convertì il proprio fondo “oil for food” da dollari in euro accettando soltanto la moneta europea per la compravendita del petrolio iracheno (incorrendo nel ben noto trattamento).
Hugo Chavez auspicò pubblicamente il classico effetto domino che avrebbe scalzato il dollaro dalla posizione dominante di moneta di riferimento, cosa che avrebbe sortito pesantissime ripercussioni sull’arrancante economia statunitense.
In definitiva, la Commissione Trilaterale, sorta con lo scopo specifico di dissestare gradualmente il contraltare sovietico allo scopo di integrarlo nei rodati meccanismi atlantisti e la contestuale scelta, operata dai “trilateralisti”, relativa al rafforzamento delle appendici occidentali (Unione Europea) ed orientali (zona estremo – asiatica) all’heartland scaturì dall’esigenza di incrementare il coefficiente eversivo di tale disegno strategico, ma la repentina, brusca ed inaspettata caduta dell’Unione Sovietica privò gli Stati Uniti del consolidato nemico “perfetto”, cui andarono a sostituirsi nuove, inaspettate e non contemplate minacce geopolitiche.
L’ascesa dell’Unione Europea e della relativa (seppur differente, minore ed in via di consolidamento) emulazione asiatica, accompagnate dall’adozione di una moneta forte come l’euro, ridimensionarono di fatto il ruolo centrale degli Stati Uniti, la cui economia si regge sull’assunto illustrato da Perroux relativamente alla “disomogeneità delle strutture” nel contesto della redistribuzione del lavoro a livello mondiale (globalizzato).
La riconversione dell’economia statunitense in funzione del suo adeguamento alle nuove necessità dell’epoca post – sovietica presentò fin dall’inizio difficoltà sotto molti aspetti insormontabili e conteneva incognite pesantissime, capaci di sortire serie ripercussioni sugli equilibri internazionali.
Il processo forsennato di finanziarizzazione dell’economia sull’onda del dogma rappresentato dalla “new economy” ha creato nuovi pescecani della finanza considerati da molti superficiali (ed economicisti) osservatori i veri regolatori della politica internazionale laddove, in realtà, il loro ruolo è limitato alla mera applicazione pratica delle strategie escogitate dai reali strateghi del capitale, titolari delle più alte cariche onorifiche nell’ambito dei vertici “trilateralisti” e delle riunioni del Bilderberg (i già citati Rockefeller e Brzezinski, Soros, ecc.).
Il sorgere di nuovi attori geopolitici contestuale al fallimento delle previsioni “trilateraliste” (e “bilderberghiane”) ha minato le capacità persuasive statunitensi, costringendo i comparti decisionali del Pentagono e della Casa Bianca ad abbandonare le “strategie del serpente” per far regolarmente ricorso alla forza bruta, gettando di fatto la spada sul piatto della bilancia (come è accaduto in Libia) nell’estremo tentativo (di Sisifo) di arrestare o quantomeno contenere la prorompente espansione dell’ascendente colosso cinese e di fare della forza l’unico fattore garante della supremazia del dollaro, in assenza della quale crollerebbe l’intero sistema imperiale (o meglio imperialistico) statunitense.
Il sorgere di una nuova entità asiatica – di cui la Russia è chiamata a svolgere il ruolo cruciale – capace di escogitare nuove strategie finalizzate all’integrazione dell’Europa, rappresenterebbe quindi la principale minaccia (mortale) rispetto al sistema unipolare dominato dagli Stati Uniti.
Su questo Zbigniew Brzezinski ha sempre avuto ragione.
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