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Davide Orecchio e Paolo Di Paolo
La fissazione per il passato e il libro, pugno di fogli con una copertina che nasconde un fossile nella filigrana delle pagine. Il fossile è una conchiglia di appena sessant’anni fa, perfettamente mummificata. Nella sua conformazione a spirale, riemerge e graffia l’ascoltatore professionista, che non s’aspetta e soffre:
Le aspettative deluse, la sopraffazione di chi non può ribellarsi, la quotidianità come eterna lotta, o come eterna lotta per la vita. Oppure, ancora, l’orrore, tollerabile soltanto a prezzo dell’indifferenza e di un’amnesia che si ritorce contro.
La morte.
Subita. Volontaria. La morte che accade e basta (e se non è fatto compiuto oggi, ha per ciascuno una data stabilita, sia pure nel futuro, nel “Piccolo glossario” in calce al romanzo).
La rinascita dei sopravvissuti. Sempre imperfetta, qualunque sia la distanza tra i luoghi, tra i tempi, tra le scelte di vita a volte diametralmente opposte in uno stesso individuo.
Il viscerale (slegato dal genere, ma cosa dire dei personaggi femminili? Sono veri quanto lo sarebbero se fossero stati ritratti da una scrittrice).
Il poco che sazia chi sappia accontentarsi. L’inquietudine che spazza via quel poco.
Le ferite che storpiano il corpo. Le ferite nell’anima, che non si rimargineranno mai.
La solidarietà. La solitudine.
L’ascoltatore di professione riesuma il progetto involontario, soffia via la polvere e si stupisce di ciò che vi ritrova sotto: schiere spiraliformi che formano gli elenchi di persone, di qualità che definiscono persone, le elencazioni di poeti, di soprusi, di giorni e notti di lavoro e lotta sotto un firmamento a rotazione siciliano, argentino, romano, e infine, per l’ultima volta, siciliano.
L’ascoltatore di professione vibra con la penna-seppia in pugno e il racconto del sopravvissuto trova sfogo nell’inchiostro gettato su pagine che oscureranno la vista del lettore.
Sono altre biografie infedeli, quelle più vive e vere, che idratano i tessuti disseccati dei non più vivi e di quelli dei non ancora morti, e rendono giustizia ai più che trainano la vera Storia.
Ho letto questo libro in metropolitana, in autobus, a tavola, in un giardino pubblico. Immersa nel rumore e in assoluto silenzio. Qualcosa, leggendo Stati di grazia, prende a vibrare dentro e lo fa sempre più forte. Ho dovuto interrompermi spesso, quando l’umanità di vite che potevano includere la mia è emersa, sempre, dalle vittime e pure dai carnefici, e la vibrazione è giunta in prossimità di scuotere anche il fisico.
Ho dovuto impegnarmi, richiuse le pagine, a riprendere il controllo.
Alcuni passi scelti da Paolo Di Paolo, moderatore durante la presentazione a Libri Come, ieri sera, hanno causato nel pubblico improvvise perdite di controllo e conseguenti epidemie di impegno nel tornare alla realtà di una sala gremita, un tavolo, uno schermo, uno scrittore mite e una somma di pagine unite assieme da una copertina.
Stati di grazia è una conferma del talento, della passione, dell’umiltà, della competenza e della sensibilità di un autore incapace di mentire o di violare l’intimità della prima persona singolare. Di uno storico e biografo e prima ancora di un uomo. Un testo che ha avuto in gestazione per dieci anni, durante i quali ha esercitato la sua qualità principale, l’ascolto (nomen omen, sì, e spero che ne sorrida).
Davide Orecchio ha superato la già eccellente prova di Città distrutte tessendo una storia straordinaria lungo un unico piano sequenza che mostra l’intreccio di vite, linguaggi, tempi, luoghi, fatti privati e grandi movimenti della Storia riferiti con uguale dignità.
È grande l’emozione nel finale, ma, a ritroso, lo è già nelle confessioni pudiche del biografo-autore, ritagliato in un cameo liminare.
«Preferirei dimenticare.»
«Questo non è possibile. » «Lo so.» «Allora ricordi?» «Sì, ricordo.» «E lo racconterai?» «Può darsi, ma non so a chi. Aspetta, forse ho una persona. Un ragazzo. Uno serio. Uno che ascolta. Lavora per me e a lui, in effetti, potrei raccontare che»
Ancora a ritroso. È emozione grande e stridente scoprirsi solidali con il servo e complice dei torturatori, patire i suoi stessi incubi pur vivendo vite totalmente differenti.
Ed emozionano le storie di bambini, quelle di donne dalla femminilità negata, l’eroismo degli ultimi, specchiarsi nel rassicurante ricorso alle ideologie, ripassare con le unghie sopra le cicatrici dei dolorosi dubbi di riflusso.
Emoziona la lingua, propria di ciascun personaggio, cesellata per questo, ma mai d’intralcio alla lettura. Che fa fremere il colore della narrazione come la velatura oro stesa sulle tele cinquecentesche, o la veridicità iperreale delle stampe ottenute da diapositive.
Una lingua che crea ologrammi multidimensionali, la vera firma di Davide Orecchio su questo testo che non mi riesce di definire meno che capolavoro.
Davide Orecchio, “Stati di grazia” – Ed. Il Saggiatore, 2014