Ascoltavamo tutti i Pink Floyd.

Da Suster

Lei ferma la macchina nel parcheggio dell'ospedale. Piove.
Fantastica questa invenzione! Pensa, riferendosi all'automobile (nemmeno l'avessero inventata l'anno scorso), ma siccome non è abituata a spostarsi in auto, ogni volta ne rimane molto soddisfatta e stupita: la comodità, il relax, la musica dallo stereo, la climatizzazione...
Ehm... ma com'è che si spegne 'sto getto di aria calda? Sto soffocando.
E poi, che cavolo ci faccio ora qui quaranta minuti?
Perché stranamente era arrivata in anticipo. Aveva l'appuntamento per la visita tre quarti d'ora più tardi, senza contare i normali tempi di attesa.
Tanto valeva aspettare in auto.
Una Ford un po' vecchiotta vecchia vetusta Ford che tra poco sarebbe potuta diventare macchina d'epoca, se solo fosse stata in condizioni più ottimali.
Niente di grave, ma i due sportelli da fuori non si potevano aprire con la chiave; bisognava aprire il bagagliaio e armeggiare con una canna di bambù (ivi appositamente posta) fino a riuscire ad aprire la maniglia della portiera. Il sedile dal lato guidatore non si alzava (alquanto scomodo per una tre porte), e l'altro bisognava forzarlo con un moschettone di ferro, sempre rinvenibile nel cruscotto a questo scopo. Per chiuderla invece bisognava fare il giro e utilizzare la portiera del lato passeggeri, perché l'altra era troppo dura e già avevano rotto una chiave tentando di forzarla.
Per il resto una gran macchina. Certo, lo sterzo un tantino duretto per una che è al nono mese di gravidanza e le escono fuori le budella ogni volta che deve far manovra. Magari se si riuscisse a spegnere quest'aria calda che esce a raffiche, ma mi sa che è bloccata...
Il rivestimento interno sta un po' cedendo, andrebbe reincollato, e poi sul soffitto c'è un po' di muffa. Il sedile non viene più avanti di così: guidi un po' sprofondata ma fa niente.
Però l'impianto stereo, ragazzi, vale da solo più del prezzo intero dell'auto (e non esagerava, perché l'auto l'avevano avuta praticamente gratis).
Giacchè mancava ancora un bel po', e lei era abituata ad arrivare in ritardo, non le sembrò decoroso presentarsi in anticipo. Alzò il volume e spense il quadro.
Fuori la pioggia scioglieva i contorni degli oggetti e le coordinate spaziali sui veti dei finestrini.
Si vedeva solo il verde delle aiuole e degli alberi nel grande parcheggio dell'ospedale.
Il cd girava a ruota nello stereo già da qualche giorno, ma ora tutto era musica, e la musica creava un'altra dimensione nella mente, nel ricordo. Le parole delle canzoni risalivano alle labbra da chissà quali anfratti mnemonici.
E rivide quella casa, e quelle serate e quei pomeriggi in cui per mesi tutti ascoltavano i Pink Floyd.
Il potere evocativo della musica ha dello straordinario, nelle giuste condizioni.
In quella casa al sesto piano del vecchio condominio sopra la stazione, abitavamo in quattro, due donne e due uomini, meglio: due ragazzine e due bamboccioni.
Ci vivevamo in quattro e facevamo cose diversissime, ma ascoltavamo tutti i Pink Floyd. Più altra roba, ma di fondo, tutti i Pink Floyd.
Il poliedrico Do-medico, ex campione di salto triplo, costruttore di soppalchi, suonatore di qualsivoglia strumento, amante delle escursioni in moto, specializzando in neurochirurgia, si esercitava a fare le suture con una mano sola, ci raccontava come si opera un aneurisma, ci decantava le bellezze delle Alpi Apuane e ci crocifiggeva con le visite della sua ragazza, da noi soprannominata LSV (La Stupida Valeria), una sciacquetta biondina e gran rompiballe con arie da maestrina triste.
Formiconio, aspirante geologo impantanato nella tesi; non ho mai capito cosa facesse l'intera giornata: bivaccava tra la sua camera e la cucina, tra una canna e una caffé, snocciolava giochi di parole così scemi da essere imbarazzanti, organizzava il suo tempo intorno alla palestra e poco più. Fondamentalmente gran tascio (ghiozzo/tamarro et sim.) ma aveva amici molto interessanti, per cui valeva la pena tenercelo buono.
Dani e il suo circolo leninista, che mi trascinava alle riunioni del primo maggio, e correva a diffondere Lotta Comunista per l'intera provincia con quegli sfigati dei suoi colleghi (ops... mi è scappato), nel suo cappottino a doppio petto che non si chiudeva mai per via delle mega tette.
Io mi facevo serate saltuarie in una pizzeria napoletana gestita da ignoranti cafoni, un 200 coperti a serata, da morì; guadagnavo miserie che sperperavo senza remore, mi dividevo tra lezioni universitarie e baby-sitting pomeridiani, fotocopiavo libri di testo e dispense, e i soldi che non bastavano mai.
Dal terrazzo di quella casa si vedeva il bar del dopolavoro ferroviario, e più dietro, le ferrovie, e più dietro le terrazze dei palazzi popolari, e dietro dietro, all'orizzonte, le ciminiere della Saint Gobain, che al tramonto erano quasi romantiche.
Suonava sempre uno stereo, o più d'uno, in quelle quattro camere arredate alla bell'e meglio.
La sera cenavamo tutti insieme e si finiva sempre a fare almeno le quattro, per poi emergere al mattino in coma non mia prima delle dieci.
In quella casa preparai un esame in quarantott'ore filate, senza dormire mai, e ci presi pure un 30.
In quella casa ho scialacquato il fior fiore del mio tempo, ma quello era il tempo delle cazzate da fare, per poterti poi dire che le hai fatte, e che non c'è niente da rimpiangere in fondo, ad averle archiviate.
In quella casa sempre tanto fumo, e bottiglie di vino vuote, pentole sul fuoco, e va e vieni di gente, tanti musicisti, tante note diverse, tante chitarre.
Io e Dani che ci trattavano come le piccole di casa.
Sperimentavamo piatti nuovi, inventavamo testi sul tema di Prospettiva Nevskij, imparavamo a strimpellare l'arpeggio di Wish you where here e Wots uh the deal. Ovviamente non avremmo mai imparato a suonare davvero, ma ci abbiamo creduto davvero. Per un po'.
Subivamo il fascino degli amici musicisti attori e artisti tronfi e consapevoli del fascino che sapevano di esercitare, trescavamo un po' a casaccio, e ci ritrovavamo a ridere serate intere perculandoli a sangue, impietose nella nostra complicità femminile a due.
Guardavamo Pulp Fiction sul soppalco e il ciclo dei film di Hitchcock alle tre di notte, e Pagliacci assassini e Il mio amico Bigfoot, mentre io finivo il labirinto per il mio orsetto russo, che poi fece una brutta fine, perché se ne andava in giro per casa di notte a nascondere provviste di semi di girasole negli anfratti domestici e nei vestiti che rimanevano a terra dimenticati da qualcuno.
E finì male. Molto male.
Ci trascinavano alle feste di amici di amici dove intravedevamo il triste destino degli studenti tardoni, che vedevamo lucidamente come matusa irranciditi mantenuti per troppi anni da genitori lontani tra i bivacchi sterili della vita di ateneo (a pensarci ora, loro erano sulla trentina, ma dal basso dei nostri 20 e 22 anni poteva ben essere così).
Ci facevamo scarrozzare in giro da maschi di turno che speravano in prede facili (poveri illusi) tra Livorno e Viareggio per jam session e locali molto rock sentendoci due gran figone intenditrici di musica e vita, e bevevamo birra a scrocco sedute in strada, e sui Lungarni e sulle spiagge e sui canali del quartiere Venezia.
E ti ricordi quella volta che siamo scese in stazione e abbiamo preso il primo treno utile e siamo andate a Bologna? Sì e siamo morte di freddo tutta la notte in giro per la città, e nella sala d'attesa della stazione c'era una puzza infernale, e ci scaldavamo le mani col fon asciugamano del bagno...
Non è durata tanto, quella vita, lì in quella casa al sesto piano. Nemmeno un anno ci restammo, per quanto fu un anno intenso, a vivere uno addosso all'altro, a litigare e condividere e cazzeggiare e cantare e devastarci un po' e svegliarci tardi, e stare gomito a gomito come fratelli di una confraternita esclusiva e poi detestarci e non poterne più l'uno dell'altro, e scomparire per giorni.
Nemmeno un anno, e mi pare un'epoca, siglata da quel rock un po' intimo-malinconico un po' psichedelico, un po' deprimente un po' ribelle.
E' che bisognava andare avanti, o ci affossavamo.
E non tanto perché poi sono partita per l'Erasmus, o perché poi mi sono messa con quel tipo strano che abitava al piano terra, con quella parlata negroide e quella storia alle spalle, che si diceva fosse rifugiato politico dal Libano... No, no: dalla Libia... ma dove sarà mai 'sta Libia? Boh! Un tipo strano, un casinista comunque, lascia stare, non ti ci mischiare... va bene Dani, hai ragione.
Ad ascoltar le amiche a quest'ora non ero qui... in questo parcheggio di ospedale, a ripensare a quella casa disastrata, con le pentole in cucina appese al muro, e i ripiani del frigorifero divisi per appartenenza, e i turni delle pulizie affissi in corridoio che nessuno guardava mai, e il tempo era fermo e se ti ci fermavi troppo ti fagocitava e iniziava a scorrerti via senza che tu te ne accorgessi e già avevi trent'anni, e non avevi combinato niente: no, no, meglio scappare. Basta basta.
Ma mi rimane questa colonna sonora, di quel tempo; di noi che facevamo le cose più disparate, ma che però ascoltavamo tutti i Pink Floyd.
Nel ricordo tutto appare sempre un po' più splendente.
E ora spengo lo stereo e vado, che è ora.


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