Bergamo Alta sembra un dipinto nel sole pomeridiano di un ottobre caldo che fa dimenticare le giornate ad aspettare gli arrivi sotto la pioggia battente. Laggiù, in fondo, c’è il cartello dei trecento metri e una curva secca. Un taglio netto poco prima della linea bianca.
Nessuno sa cosa succede negli ultimi metri, a volte nemmeno quelli che ci sono dentro, è un flusso improvviso, istanti tanto veloci quanto intensi. Istanti che riempiono improvvisamente il vuoto lento dell’attesa. Subito, tutto insieme, le biciclette si mangiano il momento.
Lo speaker urla quando Daniel Martin e gli altri sbucano da quella curva ai trecento metri: sta per vincere il Lombardia numero 108.
Il primo, il secondo, il terzo, il quarto. La pennellano alla perfezione. Poi il meccanismo si inceppa, qualcuno sbaglia traiettoria, ne cade uno e si ammucchiano tutti nell’angolo di quel gomito d’acciaio e asfalto. Un groviglio di biciclette, di gambe, di scarpini, di imprecazioni urlate o sussurrate a denti stretti.
Quello che c’è stato dopo non lo so. Tra la gente, le macchine, i corridori che arrivavano stremati e grondanti di sudore, mi è sembrato il solito copione. Anche se non lo è mai. Nel ciclismo ci sono profondità che non scopre nessuno. Restano insabbiate dalle solite abitudini: rincorrere il vincitore, accalcarsi davanti al podio, salutare le telecamere.
Quando ho visto Romain Sicard dopo l’arrivo, era quasi schiacciato contro una transenna, in mezzo al flusso ininterrotto della gente, in piedi, con i riccioli scuri lucidi di sudore.
Si passava un asciugamano blu sulla faccia e sugli occhi forse più grandi per lo sforzo. Prima ho visto lui, poi le sue dita sporche di grasso di catena, i calzini immacolati e le gambe magre segnate di nero per il contatto con qualche ruota. E la bicicletta abbandonata a terra, senza una ruota, tra i passi di tutti.
Cose da niente, scene da un arrivo. Sarà stato coinvolto nella caduta, forse sarà arrivato in qualche modo oltre la linea bianca, con poche irregolari pedalate o con la bici in mano. Cose che si vedono, sì. E poi si dimenticano nel turbine di tutto, nei coriandoli, nello spumante, nelle ore di viaggio per tornare a casa. Ma questo non è un diario come un altro. Qui ci sono annotati tutti i segni indelebili che il ciclismo lascia in noi. Segni neri come quelli di Romain sulle gambe, sulla punta delle dita. Testimonianze di quello che abbiamo provato a fare. Asfalto, sudore e grasso di catena. E’ il volto di questo sport, bello perché imperfetto e stanco per la fatica. Mi appiccico qui, dove riesco a trovare quello che cerco sempre in ogni angolo. Una storia. Sulle tracce di quello che vedo, annuso, ascolto. Una storia anche breve, di un attimo, ma che sia intensa come uno sguardo.
Quando Romain si allontana, rimango a guardare il suo numero attaccato sulla schiena. Si fa largo tra la folla che va nella direzione opposta alla sua. Qualcuno gli ha montato la ruota e lo sta aiutando a raggiungere il pullman della squadra. Qualche metro ancora e poi la gente lo inghiotte, non lo vedo più.
E’ uno sport, questo, che va sempre controcorrente. I canoni bisogna dimenticarli, la strada e la fatica li annullano. Non c’è posto per la bellezza dipinta. Sotto la pioggia o sotto il sole è questo che ci avvinghia al ciclismo come innamorati del primo giorno: il sudore che si mischia alla polvere, il segno degli occhiali, i capelli spettinati sotto il casco. Tutto quello che restituisce il fascino della verità che abbiamo perduto.
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