Nelle Filippine quando muore qualcuno, i parenti hanno diritto a giocare d’azzardo durante la veglia funebre. Spesso infatti, non hanno i soldi per il funerale e in questo modo possono procacciarseli. Inoltre, alla famiglia in lutto spetta una percentuale sulle giocate. Ciò ha dato luogo a un traffico di cadaveri che vengono venduti per organizzare delle finte veglie funebri in cui si gioca d’azzardo.
Questo business della morte ce lo racconta Oros, il film che ha aperto Asiatica, la rassegna sul cinema orientale che torna ogni anno al Macro di Roma. Per una settimana, dal 5 al 13 ottobre, abbiamo la possibilità di immergerci in film davvero insoliti che ci mostrano mondi e culture lontane, in cui si parlano lingue incomprensibili. Ad ogni proiezione è presente il regista che parla del suo film e risponde alle domande del pubblico. Un’altra qualità, apprezzabilissima di questi tempi, è che tutti i film sono gratuiti. Certo la scelta del film è al buio e non si sa mai cosa ci aspetta.
Oros spiega perché tanti filippini emigrino qui da noi. Non che il film parli d’immi-grazione, ma mostra quanto sia dura la sopravvivenza in quel paese. Dura al punto che persone poverissime sono disposte ad ospitare in casa il cadavere e la bisca, pur di guadagnare qualcosa. Ma già chiamare “case” i luoghi in cui vivono è esagerato perché sono delle baracche prive di servizi igienici. Si gioca di fianco alla bara aperta e per poter guadagnare di più, le veglie funebri si protraggono anche venti giorni, un mese. Intanto le condizioni del morto peggiorano e quindi gli vengono iniettate delle sostanze (sulla pancia) affinché non si decomponga. Ma non c’è modo di evitare la puzza del cadavere (guarda il trailer).
Nonostante il macabro scenario e le terribili condizioni di vita che descrive, Oros del regista Paul Sta.Ana è un bel film, con un buon ritmo. Il regista, che ha girato nei luoghi dove effettivamente si gioca d’azzardo e si è servito anche di gente comune, racconta che alla prima del film mancava una parte del cast perché poche sere prima c’era stata una retata della polizia ed erano stati tutti arrestati.
Altro film è Here, Then del regista cinese Mao Mao. All’uscita chiedo il parere di un critico cinematografico presente in sala e mi dice: “Mi ha fatto pensare a Deserto rosso di Antonioni. L’ho ribattezzato Deserto grigio. E’ un deserto dei sentimenti. Sono passati cinquant’anni dal film di Antonioni e quindi si vede la differenza, anche di stile, ma c’è una ricerca di linguaggio molto elevata, sia dal punto di vista del colore, che della fotografia. C’è tutto un gioco di sfocature. L’ho trovato figurativamente molto ricco e con un suo stile preciso”.
Gli chiedo: “Ma di che parla?”
Risposta: “Della difficoltà delle relazioni nella società cinese attuale. Il giovane cinema cinese è molto attento alla questione formale e meno interessato al modo di raccontare classico. Sono più concentrati sul linguaggio”.
Va bene, ora che ha dato il suo giudizio positivo, posso dire che è un film in cui ogni inquadratura dura un’eternità. Fai in tempo a fare un sonnellino e quando ti svegli sei ancora nella stessa inquadratura. E’ un film in cui la messa a fuoco sembra la scelta più scontata e banale e la trama è del tutto inesistente.
La sceneggiatura dell’intero film sarà lunga due pagine e mezza perché non parlano mai. Però il film è pieno di suoni, o meglio di rumori fastidiosi e assordanti.
Di che cosa parla Here, Then? Sul catalogo si dice: “Giovani senza nulla da fare, giornate noiose, identità perdute, solitudini irrisolte”. Comunque non è un film in cui succeda qualcosa. Però sono tutti vestiti in modo trendy. Sembrano usciti da una rivista di moda newyorchese. Prima dell’inizio del film, Mao Mao ci dice che ha passato un brutto periodo e che è depresso. Guardando il suo film si capisce.Our Homeland di Yang Yong-Hi è candidato all’Oscar come miglior film straniero per il Giappone nel 2013 e racconta la storia di un uomo di quarant’anni che quando ne aveva 15 è stato mandato in Nord Corea e ora torna in Giappone perché ha un tumore al cervello e deve curarsi. Per la prima volta dopo 25 anni rivede la sua famiglia e i suoi amici. L’uomo però non è libero. Non potrà restare in Giappone più di tre mesi ed è accompagnato e controllato da una specie di poliziotto.
Alla fine la regista ci racconta che questo è il suo primo film di fiction e che in precedenza aveva fatto solo documentari. Dice che quando ha proposto la storia a dei produttori nessuno voleva fare il film perché lo ritenevano troppo rischioso. Per gli attori è stato diverso. L’ha proposta a dei grandi attori e hanno subito detto di sì: così ha avuto i migliori. Il suo stile è da documentario con lunghi piani sequenza perché non le piace lo stile televisivo. Non le piace spiegare molto. Dice che bisogna fidarsi del pubblico e lasciargli il tempo di leggere tra le righe.Quando le dicono che questo è un film di denuncia, lei si ribella, sostenendo che non è un’attivista e che il suo film non necessariamente è contro il governo. Questa dichiarazione suona stranamente ipocrita, visto che la storia che ci ha appena raccontato è quella di uno uomo che ha un tumore al cervello e che non può restare in Giappone neanche il tempo necessario a operarsi e curarsi. Ma abbiamo una spiegazione quando la regista dice che suo fratello vive ancora in Corea del Nord e lei non può più vederlo perché, dopo il suo primo documentario – sul padre – è finita sulla lista nera e non può più andare in Corea. In pratica quella che racconta nel film è la storia della sua famiglia (guarda il trailer).
Le chiedono di che nazione è. Risponde che ha il passaporto della Corea del Sud, ma la sua famiglia ha posizioni politiche della Corea del Nord, mentre lei è nata e cresciuta in Giappone. Potrebbe prendere il passaporto giapponese e scegliere il Giappone, ma c’è stata molta discriminazione verso i coreani, quando lei aveva venti, o trent’anni.
Nel film, il padre ha una posizione importante in un’associazione della Corea del Nord, quindi non può parlare apertamente e neanche il protagonista può farlo perché ha lasciato un figlio in Nord Corea, ma la sorella può parlare e lo fa. La situazione di scissione è chiara nella scena in cui la sorella va dal sorvegliante del fratello e gli dice: “Io odio il tuo paese!” E l’altro le risponde: “Ma nel paese che odi, io e tuo fratello ci viviamo”.
Per chi fosse interessato, oggi è l’ultimo giorno di Asiatica e stasera ci sarà la premiazione.
A qualche giorno di distanza una piccola postilla: indovinate chi ha vinto questa edizione di Asiatica? Proprio “Deserto grigio”, ovvero il film di Mao Mao Here, Then. Il critico sarà contento…