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Aspettando Godot: il Gran Teatro della Vita

Creato il 12 marzo 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Aspettando Godot: il Gran Teatro della Vita

Aspettando Godot di Samuel Beckett è un testo capitale della letteratura drammatica del Novecento, e sulla sua eco duratura pochi dubbi possono essere sollevati. È per tali motivi che, ogni volta che si assiste a una nuova messa in scena di questo capolavoro enigmatico, è come ritrovare un vecchio amico e avere una gran voglia di verificare se sia cambiato, e quanto.

Maurizio Scaparro, che dirige una produzione del Teatro Carcano di Milano, si trova al suo primo confronto con il gigantesco autore di Dublino, e sceglie la via, in apparenza priva di rischi, di una sostanziale fedeltà alla lettera del testo. Il suo Aspettando Godot punta tutto sull'essenzialità delle componenti scenografiche, luministiche, sonore, per mettere in primo piano e, in qualche modo, ritornare, alla parola. A quella parola che Beckett comincia a destrutturare, a denigrare, perfino a delegittimare proprio a partire dalla sgangherata "epopea" di Vladimiro ed Estragone. Il percorso di scavo, prima dentro le parole e poi dentro i movimenti dei corpi in scena, che l'autore condurrà negli anni successivi, nel testo scritto a cavallo fra 1948 e 1949 è appena accennato. Si tratta di un teatro radicalmente di parola, non vi può essere incertezza, eppure la conversazione è ormai solo un espediente per lasciare che il tempo trascorra e, forse, immaginarsi di farlo andare più veloce. Come dire: il teatro naturalistico e l'immarcescibile salotto borghese vengono superati con un balzo improvviso e lunghissimo.

Siamo di fronte a un Aspettando Godot che rifugge sia gli astrattismi che l'eccesso comico-burlesco; lo scenografo Francesco Bottai propone un allestimento in cui, contro lo sfondo, rappresentato da un semplice telo-cielo, si staglia un albero rinsecchito, quasi stilizzato, e nient'altro. La "strada di campagna", indicata da Beckett in didascalia, in questo caso, è qualcosa di ancor meno definito e ciò contribuisce a collocare i personaggi in una dimensione altra, in cui l'unico riferimento è il proverbiale ripetersi delle loro giornate.

Antonio Salines è un grande Estragone, consumato senza posa dal dissidio fra tenerezza e ferocia, mentre Vladimiro, incarnato con intelligenza ed equilibrio da Luciano Virgilio, riesce a spaziare con straordinaria eleganza dal monologare pensoso a un improponibile accenno di danza. Più didascalico il Pozzo di Edoardo Siravo, personaggio d'altro canto di enorme complessità, mentre Enrico Bonavera è un sorprendente Lucky che, nel concitatissimo monologo del primo atto, riunisce in sé la profondità dell'interpretazione al virtuosismo vocale.

Lo spettacolo di Scaparro ha un grande merito, in definitiva: quello di puntare solo all'indispensabile, aggirando il rischio della sovrainterpretazione di un testo parecchio scivoloso. Del resto, anche se Godot non arriva, alla solidità ci pensano, in particolare, Salines e Virgilio, tanto caracollanti, quanto ottimi, Estragone e Vladimiro.


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