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Se The Master è uno dei film che attenderò con più ansia in questa stagione appena iniziata, è per due ragioni. La prima si chiama Paul Thomas Anderson. Il regista del Petroliere e di Magnolia, che proprio ieri il quotidiano britannico The Guardian ha inserito al primo posto della classifica dei cineasti "più eccitanti del 2012" (vedi), conferma la mia fascinazione per autori con deliri di onnipotenza, artistica si intende, da Coppola a Kubrick, passando ovviamente per Christopher Nolan, altro esemplare affetto da gigantismo (qui la recensione del Cavaliere Oscuro – Il ritorno). La seconda ragione, invece, risponde al complicato nome di Joaquin Phoenix, che nel film interpreta Freddie Quell, reduce di guerra sedotto dal sedicente guru di una setta (Philip Seymour Hoffman) sulla falsariga di Scientology.
Vestito di scuro, indifferente a qualsivoglia divieto, l'attore ieri a Venezia ha suscitato non poche critiche per il comportamento tenuto alla conferenza stampa di The Master, durante la quale non ha risposto alle domande, o peggio, si è messo biascicato frasi criptiche sul proprio personaggio accendendosi una sigaretta dietro l'altra. Phoenix ha da sempre fama di burbero e non perde evento pubblico per confermare il suo terrore/odio atavico nei confronti dei giornalisti. Tuttavia, nonostante i precedenti collezionati dall'interprete, ammettiamo che la stampa dovrebbe almeno ritenersi colpevole di istigazione a delinquere. Soltanto qualche anno fa, un Phoenix irriconoscibile faceva la sua bofonchiante apparizione nel salotto televisivo più amato d'America. Esibendo barbone, faccia da schiaffi e occhiali da sole d'ordinanza, l'attore affondava le pingui chiappe sulla poltrona di David Letterman, poi si chinava come se gli fosse caduto qualcosa di prezioso. Starà cercando la sua dignità, pensarono i telespettatori, e invece no, cercava un pertugio dove appiccicare la chewing gum. Quando poi, proprio al Lido veneziano, venne fuori che non aveva davvero abbandonato il cinema per riciclarsi come improbabile rapper, bensì si stava prestando al mockumentary I'm still here di Casey Affleck, Joaquin riacquistò tutta la mia stima. Chi altri se non uno splendido, disarmante pazzoide, avrebbe accettato di mettere a rischio una fiorente carriera per finire negli squallidi panni di un drogato, lunatico e paranoico cantante hip hop, pedinato quotidianamente (per un anno intero!) dalla telecamere, in un'immersione attoriale tanto convincente da ingannare la combriccola di star hollywoodiane al gran completo? Attraverso l'espediente del falso documentario, il film di Affleck mostrava fino a che punto i media fossero in grado di travisare la realtà, mettendo a nudo la spesso ottusa invasività dell'industria dell'intrattenimento. Un tema assai attuale, visto il recente episodio di intrusione mediatica nella fine della love story tra Robert Pattinson e Kristen Stewart.
E non dimentichiamoci che lo stesso Joaquin, in passato, ha avuto modo di assaggiare le amarezze di quella che chiamano "dolce vita". Cresciuto in un'anomala famiglia di fricchettoni e spedito a bazzicare fin da bambino set cinematografici, l'attore assistette, appena diciannovenne, alla morte per overdose del fratello maggiore River, astro nascente del grande schermo sullo scorcio degli anni '90. La disperata telefonata di Joaquin al 911 (il nostro 118), venne all'epoca registrata e trasmessa, senza pudore alcuno, da radio e tv. Ad oggi, uno dei più osceni casi di sciacallaggio catodico mai perpetrati. L'ancor giovanissima promessa decise allora di dire addio alle scene. I riflettori torneranno ad accendersi per lui soltanto due anni dopo, quando Gus Van Santriuscirà a stanarlo e a dirigerlo in Da morire. Le mirabili interpretazioni dell'imperatore Commodo nel Gladiatore e di Johnny Cash in Walk the line, grazie alle quali per ben due volte Phoenix avrebbe sfiorato l'Oscar, rischiarono di non vedere mai la luce.
Cosa pretendere ora da quest'uomo, il cui nome, dopo anni di onorato servizio cinematografico, viene ancora storpiato da schiere di giornalisti (gente, si legge 'uachin'...)? E vogliamo parlare di quel genio che, facendo arrossire di vergogna metà conferenza stampa, si è rivolto ieri al trio Anderson-Phoenix-Seymour Hoffman per domandare se il cesso rotto nella tal scena fosse vero o finto? Eh sì, in effetti è importante chiarirle certe cose, la scelta della ceramica testimonierebbe, incontrovertibilmente, la poetica realista voluta dall'autore. Deve essere frustrante, povero Gioacchino, partecipare ad una delle pellicole più attese del 2012 e veder tutto sfumare, letteralmente, in cacca. Questo per dire che poco importa dei vezzi da divo maledetto, finché lo sguardo inquieto ed espressivo dell'attore farà da contrappunto alla cafonaggine dell'essere umano. Phoenix resta per me un paio di straordinari occhi color ghiaccio, che festival dopo festival si trascinano dietro un losco e spocchioso individuo.
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