Doveva essere una nuova età dell’oro, con il lavoro ridotto a pochi giorni, prezzi sempre più bassi e potere d’acquisto sempre maggiore; abbiamo invece disoccupazione, inflazione, lavoro precario e malpagato
“I robot faranno tutti i nostri lavori, così finalmente potremo divertirci. Le merci prodotte dai robot costerebbero molto meno di adesso, e chiunque potrebbe mantenere un tenore di vita molto più alto di quello attuale. Alcuni beni oggi considerati irraggiungibili potrebbero perfino essere distribuiti gratis”.
Proiezioni fantascientifiche di mondo immaginario?Tutt’altro: erano queste le previsioni che venivano avanzate all’incirca quarant’’anni or sono dai responsabili di grandi società di “marketing” o da esperti di computer come John Mac Carthy, il quale sosteneva che con l’avvento dei robot ormai prossimo venturo avremmo potuto “vivere tutti come gli aristocratici dell’Ottocento”.
Ma anche famosi economisti erano dello stesso avviso. In Italia, ad esempio, Sylos Labini sosteneva che la cultura del tempo libero avrebbe gradualmente sostituito il fardello del lavoro: “Viaggi, turismo e manifestazioni artistiche sarebbero all’ordine del giorno”. Ed il nostro collaboratore Angiolo Forzoni, economista e storico della moneta, che di Labini era amico, sosteneva a sua volta che con l’avvento dell’elettronica, dell’informatica e della telematica era ormai maturo in Occidente il tempo di ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni alla settimana, destinando appunto gli altri tre alla ricreazione dello spirito, cioè alla cultura, all’arte, agli spettacoli, ai viaggi, allo sport. Settori ed attività, questi ultimi, che a loro volta avrebbero prodotto nuova occupazione e ulteriore reddito.
Ci credeva anche Wassily Leontief
Sogni utopistici? Se erano sogni, in realtà li coltivava seriamente anche un premio Nobel dell’economia, Wassily Leontief, il quale sosteneva che “Dobbiamo invertire la storia. C’è un aneddoto su una grande potenza che invase un Paese primitivo e cercò di organizzare il lavoro nelle piantagioni. Ma i nativi non volevano lavorare perché mangiavano quanto raccoglievano dagli alberi. Allora i colonizzatori misero delle tasse, e tutti furono costretti a lavorare per poterle pagare. Ora noi dobbiamo fare esattamente l’opposto. Dobbiamo insegnare alla gente a lavorare di meno, contro le vecchie abitudini. Attualmente è considerato immorale dare un reddito a gente che non lavora, ma penso che dovremo farlo”.
Confrontando queste rosee previsioni con l’ amarissima realtà dei nostri giorni, viene subito da chiedersi: ma cosa è successo? Cosa ha deviato quello che sembrava il corso naturale delle cose? Non era vero forse che nell’Ottocento gli operai lavoravano nelle fabbriche fino a 16 ore al giorno, in condizioni disumane, ed i contadini nelle campagne lavoravano “da sole a sole” cioè dall’alba al tramonto? E lavoravano anche i bambini, tanto che quando fu emanata una legge che vietava il lavoro ai minori di nove anni, sembrò un gran progresso?
La condizione dei lavoratori è migliorata poi continuamente, sino alle otto ore lavorative giornaliere, alla settimana di cinque giorni, alle ferie pagate, alla pensione, alla sanità pubblica gratuita, alla scuola obbligatoria, alla tutela della maternità e dell’infanzia, ed a tutte le altre provvidenze e garanzie dello “stato sociale”.
Quelle conquiste furono strappate anche a seguito di dure lotte sindacali, e del crescere della coscienza civile. Ma in realtà esse furono rese possibili dalla meccanizzazione dei processi produttivi dagli sviluppi della società industriale, dal diffondersi di nuove tecnologie che facevano crescere sempre più la produttività del lavoro.
Sembrava logico dunque pensare che l’avvento dei robot e la robotizzazione totale della produzione fossero la tappa finale di questo processo evolutivo.
Le suggestioni della fantascienza
Ma torniamo indietro. Se questo era lo sbocco che quarant’anni or s’immaginavano già alcuni economisti, come è ovvio ancor più avanti andavano gli scrittori di fantascienza. Il celeberrimo Isaac Asimov, ad esempio, creatore della saga galattica della “Fondazione”, che ha tra i protagonisti alcuni robot, immaginava che nella realtà l’avvento dei robot non solo avrebbe portato alla scomparsa delle classi sociali, ma anche alla scomparsa del razzismo ed a un più profondo e sentito concetto di umanità.
“Dovrebbe essere più facile- scriveva- accettare tutti gli esseri umani come un solo genere, vedendo la grande differenza esistente tra loro ed i robot. La rivoluzione industriale ha ucciso la schiavitù perché abbiamo imparato ad usare macchine inanimate come schiavi. Quando i robot diventeranno i nostri servi, gli esseri umani saranno finalmente capaci di essere solo esseri umani”.
Se, sulla suggestione della fantascienza, pensiamo a robot dall’aspetto umanoide, il futuro ipotizzato da economisti, scienziati e romanzieri sembra ancora ipotetico, e comunque lontanissimo. Ma se per robot intendiamo più correttamente macchine che sviluppano automatismi programmati e comandati da cervelli elettronici cioè da computer, allora il discorso cambia completamente: nell’era dei robot cioè siamo già entrati. Come spesso accade, da Giulio Verne in poi, la fantascienza molte volte non fa altro che anticipare il futuro.
Nel romanzo “Cadrà dolce la pioggia” Ray Bradbury ad esempio descriveva una casa interamente robotizzata, ove i lavori domestici andavano avanti anche in assenza degli inquilini. Uno sviluppo che è già iniziato non solo con le reti elettriche intelligenti ed il telecomando, che attiva o disattiva il riscaldamento domestico, ma anche con veri e propri piccoli robot, come quello già in grado di spazzare e pulire i pavimenti anche negli angoli più riposti. Oppure, più banalmente, con gli irrigatori elettronici che sostituiscono il giardiniere innaffiando alle ore prestabilite il prato o i fiori sul balcone. O quelli, collegati con le centrali della polizia, che lanciano l’allarme se qualche ladro sta tentando di forzare porta o finestre.
Un robot tutto italiano
Gli esempi potrebbero continuare a lungo, anche per quanto riguarda molti altri campi. E la ricerca va avanti continuamente. Nel suo inserto su innovazione e tecnologia Il Sole-24 Ore di domenica 11 dicembre scorso citava i risultati di una ricerca di punta in atto alla scuola Sant’Anna di Pisa su fili metallici che si distendono e contraggono a comando,” ricordando” la loro forma iniziale. Una tecnologia che ha già permesso di riprodurre una sorta di tentacolo di un polpo artificiale, capace di svitare sott’acqua il tappo di un barattolo, e che apre prospettive affascinanti alla robotica. Si può pensare a robot sottomarini con bracci tentacolari in grado di infilarsi dentro tubi, o in spazi ove l’uomo non può giungere, ma anche a strumenti chirurgici e diagnostici a bassa invasività.
Assieme alla Sant’Anna di Pisa lavora il laboratorio di meccatronica di Catania di St Microelectronics, di cui è responsabile Nunzio Abate. “Potremo, egli afferma, sostituire miriadi di costosi micromotori nelle auto e poi, con i controlli che stiamo sviluppando, andare anche oltre. Fino ad una robotica leggera e versatile quale non si è mai ancora vista”
Dunque: non è il progresso scientifico e tecnologico a non aver mantenuto, anche in Italia, le sue promesse in questi ultimi trent’anni, e probabilmente la robotica si sarebbe sviluppata ancora più rapidamente, se l’organizzazione della produzione non avesse scelto altre strade.
La strada diversa scelta per produrre
Ho un ricordo personale, che forse aiuta a capire quel che è accaduto. Verso la metà degli anni settanta la Fiat decise di robotizzare la verniciatura delle auto, ma con intelligenza, poiché la decisione tagliava vari posti di lavoro, presentò quella misura come volta essenzialmente a salvaguardare la salute dei lavoratori: nei reparti di verniciatura gli operai infatti finivano con l’inalare quotidianamente vapori altamente tossici.
Responsabile delle relazioni esterne del Gruppo Fiat era allora Luca Cordero di Montezemolo, ed alla conferenza stampa con cui venne solennizzata l’apertura del nuovo impianto completamente automatizzato gli chiesi: l’industria automobilistica è uno dei pochi settori produttivi ancora ad alta intensità di lavoro. E’ logico immaginare che l’automazione non si fermerà solo alla verniciatura. Anche l’industria dell’automobile dunque è destinata a diventare sempre più “capital intensive” e con meno addetti? Ed è questo il prezzo che si dovrà pagare se vogliamo mantenere la produzione in Italia, ed evitare la delocalizzazione degli impianti nei Paesi a minor costo di lavoro?
Montezemolo fu molto cortese; si dilungò infatti nella risposta, ma sinceramente il senso d’essa fu così vago che io non riuscii ad afferrarlo.
In seguito parlarono i fatti. L’automazione e la robotizzazione delle vecchie catene di montaggio in nessun Paese si sono sviluppate secondo le potenzialità tecnologiche già esistenti e secondo le previsioni di quarant’anni fa. Le industrie ad alta intensità di lavoro – grandi e piccole- hanno scelto ovunque la via della delocalizzazione nei Paesi a basso costo, trasferendovi macchinari e tecnologie avanzate. I lavori che avrebbero potuto fare, in larga parte, i robot, li fanno oggi milioni di operai asiatici.
E’ stata una scelta giusta e lungimirante?
Le due facce della medaglia
Non è facilissimo rispondere, perché la medaglia ha due facce, ed il giudizio cambia a seconda della visuale da cui si guarda. Nell’ottica dei Paesi asiatici, è stata una decisione provvidenziale. Ha consentito loro, infatti, uno sviluppo economico veloce, anche se tutt’altro che ordinato e socialmente diffuso. E come sempre accade in questi casi, ha anche innescato un loro autonomo progresso tecnico e scientifico.
Dal punto di vista geopolitico, quella decisione sta cambiando i rapporti di forza a livello planetario. Ha reso infatti più veloce ed evidente il declino dell’Occidente: la Cina è divenuta nel breve volgere di pochi anni la seconda potenza economica mondiale, e secondo le previsioni entro il 2030 sarà la prima. Il Brasile è divenuto la sesta, superando nei giorni scorsi l’Inghilterra e l’Italia. E avanzano velocemente Russia ed India.
E’ uno sviluppo, quello della Cina e del Brasile, cresciuto secondo un modello essenzialmente mercantilistico, basato cioè quasi esclusivamente sulle esportazioni, ed è questo il suo tallone d’Achille. Per essere stabile e sicuro, dovrebbe essere trainato anche dalla domanda interna. Ma per far crescere la domanda interna, bisogna che salgano i salari. E se i salari salgono troppo rapidamente, si riduce la competitività e calano le esportazioni da cui lo sviluppo dipende. Il passaggio dei Paesi asiatici e dei BRIC in generale a stabili potenze economiche è dunque un processo lungo e delicato. Di fatto il loro sviluppo dipende ancora dalla domanda dell’Occidente.
Dall’ottica dell’Occidente
Ma guardando i mutamenti di questi ultimi tre o quattro decenni dall’Ottica dell’Occidente, l’orizzonte ed il giudizio mutano radicalmente. Uno dei paradossi più sconcertanti è che ad un progresso scientifico e tecnologico che continua ad avanzare sempre più veloce, fa riscontro un regresso sociale sempre più drammatico, nello scenario di una crisi economica che si aggrava.
Non è solo la piaga della disoccupazione che si allarga inesorabilmente, con le tragedie sociali che comporta. Sta affondando, non solo in Italia, una intera “generazione perduta” di giovani che sono ormai giunti “a metà del cammin di nostra vita” alternando lavori precari a periodi di disoccupazione, senza mai la sicurezza di un posto di lavoro stabile sul quale costruire famiglia e futuro, e con la certezza anzi di una pensione irrisoria e di una vecchiaia miserevole. E contemporaneamente si sgretola a poco a poco l’intero vecchio sistema del “welfare state” e vengono meno diritti e conquiste strappate dai lavoratori in due secoli di lotte sociali. Diritti che sembravano sino a pochi anni or sono un dato acquisito, ormai indiscutibile. E non un punto d’arrivo, ma un nuovo punto di partenza, verso ulteriori traguardi sulla via del progresso non solo economico, ma anche sociale.
Il neocapitalismo di allora, sempre meno dinastico e sempre più manageriale, sembrava destinato a sfociare nel capitalismo della partecipazione, concretando il sogno mazziniano del “capitale e lavoro nelle stesse mani”, o del “pancapitalismo” ( cioè tutti lavoratori e capitalisti ad un tempo), predicato in Francia da Marcel Loichot e sposato dallo stesso De Gaulle.
E invece oggi, in luogo del “capitalismo della partecipazione”, con la scusa della ”competitività globale” cioè grazie all’immissione dei diseredati dell’Asia nel mercato globale del lavoro, abbiamo una sorta di rigurgito di paleocapitalismo ottocentesco, socialmente darwinista ed economicamente oligarchico, che si accompagna con una finanza predatrice, autoreferente, senza morale,senza regole, senza futuro. Ed un mondo sempre più instabile, su cui aleggia l’incubo di guerre che da regionali minacciano di diventare mondiali. Un incubo al posto della promessa nuova “età dell’oro”.
Torniamo così alla domanda che prima ci ponevamo: un riequilibrio tra Paesi ricchi e Paesi poveri era indispensabile, e l’obbiettivo era stato posto già più di mezzo secolo fa. Ma è stata una scelta felice quella di tentare di raggiungerlo con una globalizzazione economica rapida e senza freni, che ha impoverito e sconvolto l’economia e la società dei Paesi occidentali? La risposta è nei fatti.